Tagged with " girolamo melis"

Girolamo Melis ci indica una strada, un ponte tra Noi stessi e gli Altri: CHE COSA SIGNIFICA GUARIRE.

373027_328761890511911_435995394_n.jpgChe cosa significa “guarire”? Che cosa significa “guarire” quando la persona deve fare i conti con una realtà fisica intollerabile, prospettive di cura incerte, ambiente rassegnato, un intelletto integro, una viva pulsione desiderante.
Che cosa significa “guarire” per le persone colpite da invalidità motoria e funzionale parziale o totale a causa di una lesione spinale?
Non ci stancheremo di cercare risposte a questa domanda, che cade su un quadro nel quale la “cura” è percepita, programmata e messa in opera sapendo che potrà raggiungere obbiettivi parziali se non addirittura irrilevanti nella traiettoria della “guarigione”.
Parliamo di una “cura” che si propone di “migliorare la situazione generale”, di “alleviare il dolore”, di “rendere tollerabili” le scomodità derivate. Che può – in definitiva – adattare la mente ad uno stato di ridotta funzionalità.
Che cosa significa “guarire” se la cura non può raggiungere
il solo obbiettivo definibile come “obbiettivo”? Cioè: il ritorno allo status quo ante, insomma all’integrità fisica?

Il concetto, la nozione e la realtà di “guarigione” – riferiti alla persona colpita da para o tetraplegia di vario grado e comunque da trauma spinale – sono profondamente diversi da quelli che accomunano altre innumerevoli patologie o alterazioni riguardanti la natura del corpo e la sua simbolizzazione.

La “guarigione” infatti non è una condizione “neutrale”. Non lo è nella percezione fisica né in quella simbolica. Voglio dire che la “guarigione” è tutto tranne un fatto oggettivo. Un esempio, tratto dal linguaggio comune della medicina, ci dice che c’è una “guarigione clinica”, una “guarigione tecnica”, una “guarigione effettiva”…
Cioè, si può essere “guariti” secondo il codice del chirurgo (l’operazione è riuscita), secondo il codice del medico generale (l’organismo ha ripreso a funzionare), e secondo il codice personale (mi sento guarito).

Che cosa significa “guarigione” per un para-tetraplegico? In quale ordine, in quale programmazione e verso quale obbiettivo proietta la “guarigione” chi sa (allo stato delle cose) di non poter venire riportato allo status quo ante?

E soprattuto, è tollerabile il pensiero che si possa chiamare “guarigione” la… ragionevole rassegnazione che una vera “guarigione” non vi sia?

E, d’altra parte, può venire tollerata la delega fideistica alla generica aspettativa di “speranza tecnica”? insomma alla messianica “ricerca scientifica”?

Com’è possibile – nella piena razionalità della mente – affidare alla scienza una simile speranza, quando si sa che la “ricerca medico-scientifica” è determinata dal marketing farmaceutico? E quando si sa del poco interesse economico dell’industria farmaceutica nella gestione della cura, della guarigione e del dopo-guarigione delle persone colpite da lesione spinale?

Il quadro fatto qui non è nuovo, niente di sorprendente vi si svela, né sarà più scoraggiante di come e quanto si viva quotidianamente la questione della “guarigione”.

Né lo aggravano i periodici can-can sui “miracoli” di questo a quel taumaturgo, di questo o quel team scientifico o chirurgico; e le più o meno rapide disillusioni.

E, finalmente, lo spiraglio della razionalità illumina il pur lento processo di acquisizioni tecnico-scientifiche, di conoscenze specifiche, di passi avanti specifici e sul quadro generale. Sicché si può dire davvero che la strada verso una qualche “guarigione” è oggi più diritta e più breve. Ma…

***

… e ora? e intanto?

Posso io, in qualche modo, decidere la mia guarigione? Sì, io devo credere fermamente di poter essere io – soprattutto io – a decidere la mia guarigione. La mia autentica personale guarigione.

Io non posso accettare di essere un “separato in casa”, e permettere che il mio corpo spezzato e la mia mente integra non si parlino, non chiamino l’energia del cuore a riattivare la comunicazione.

Non posso lasciare il corpo alla sola speranza tecnica che la “guarigione” venga dal fuori, e lasciare la mente nella sua condizione più devastante: quella dell’attesa impotente.
La guarigione va guarita dalla sua autentica malattia, cioè la delega all’intervento esterno. Può essere guarita ora. Non “intanto”, ma ora. Ora: nel ritrovarsi, nel tornare a darsi del “tu” tra mente e corpo. La mente ascolti il corpo. Il corpo indirizzi la mente.
La guarigione è allora una nuova infanzia della Persona, un’infanzia armata di saperi, di furori, di capacità moltiplicate dalla fantasia, nello smodato desiderio a lungo represso e depresso, e finalmente messo al servizio di obbiettivi concreti: per esempio ricucire con ciò che avevamo studiato e imparato “prima” del trauma, ripartire da lì e magari scoprire la nuova prospettiva di costruire un gruppo, un team, un lavoro. Per esempio ascoltare i sensi umiliati dalla mente, la sensualità, la sessualità. Per esempio guardare chi cammina… CONTINUA SU: http://girolamo.melis.it/2011/07/che-cosa-significa-guarire-alessio.html

PROSSIMAMENTE Dài: Giovani & Vecchi S.p.A. Perché il futuro è oggi.

Dài!-edit.png














Sei curioso di sapere cos’è questo “Dài !” !?… allora non perdere tempo, scoprilo: http://girolamo.melis.it/2012/04/prossimamente-dai.html

IL VECCHIO DEL BOSCO

Il vecchio del bosco
accasciato
ed il vento
le lecca, le lecca
le mani
di verde vestite
nell’ora del vespro.
Sta fermo il vecchio
nel bosco.
Il giorno è finito.
Lui s’alza la giacca
e l’aiuta la brezza,
la brezza, la brezza.
E si fa dolce riparo
per uccelli assonnati.
La notte è vicina
nel bosco! nel bosco! nel bosco!

Zaìro Ferrante
I bisbigli di un’anima muta
CSA Editrice, 2011


Questo è quel che passa il convento: la storia di quando Beniamino dal Fabbro “lanciò” qualche spicciolo alla Callas ( sì, proprio Lei, la Divina!!! )…

Ma se ti dico
“Beniamino dal Fabbro”,
che fai? Vai su Google
o ti tocchi?

di Girolamo Melis

Che io sappia, il grande Beniamino non ne ha mai scritto una riga, e questo è danno grave per te. E anche se io mi piccassi di entrare nel suo stile e di scriverne alla sua maniera, chissà, tu lo potresti godere, ma io mi farei schifo.
Ho cercato, frugato nei suoi scritti che il Nemico ha trafugato e dato alle fiamme per non rischiare, ho spulciato parola per parola i librini che Beniamino non riuscì mai a regalarmi perché sempre glielo impedii… (“io i tuoi Libri li compro!”… “ma se non hai il becco di una lira, Senesìno!”… “non ci pensare… so io quel che ho!… però poi me li dedichi…”). Niente. Nemmeno un cenno alla grandiosa soirée del Dopo-Scala, segnata dall’urlo: “Liberàte il Teatro da quest’insopportabile flagello!”
E poiché da un punto devo incominciare, scelgo “Il crepuscolo del pianoforte”. Opera di rara, ineguagliabile bellezza, pubblicata da Einaudi nel 1951. Libro subito tradotto nelle più importanti e diffuse Lingue del mondo. “Il crepuscolo del pianoforte”, meglio della sua forse più celebre “Vita di Mozart”, dava a Beniamino il diritto, o meglio il libero arbitrio di scrivere musica e di scrivere di musica, di menare fendenti in “do” al “virtuoso da piano-bar” detto Arturo Benedetti-Michelagnoli e di non farsi dare del Tu dal Confalonieri o dall’Arruga, dal Massimo Mila o da quant’altri osassero firmare rubriche da “musicologo” sul Corriere, sulla Stampa e Cupola cantante.
Ebbene, quando, al Giamaica di Mamma Lina, Beniamino e io ragazzo c’incontrammo, dieci anni dopo, “Il crepuscolo del pianoforte” era introvabile nelle accreditate Librerie del centro della città di Milano. Oh, i nemici lo leggevano di nascosto, ma il suo Autore era dannato, il suo nome era indicibile, i Librai non osavano davvero inimicarsi la Mafia del Corriere della Sera, sicché era bandito.
Io però lo trovai col mio geiger, lo lessi, poi me lo feci dedicare, e fu a quel punto che il grande Beniamino mi invitò a casa sua, in cima al (mi pare) numero 6 della via Brera. Sentii il pianoforte, bussai, mi gridò “avanti”, entrai e mi trovai dentro un tetro confessionale. “Avanti” ripeté. E lo vidi difronte, alla tastiera del magnifico Steinway a coda lunga da concerto. Interruppe il Debussy e mi disse “ascolta!” E avviò quel passaggio di Liszt… “Ascolta”, ripeté. “Questa, questa… questa è la nota che il virtuoso da piano-bar non fa… a lui non gli frega se e come e in che punto e con quale timbro l’ha scritta il Maestro… no! il Benedetti la deve fare così… ecco… ascolta… così! Ma Liszt non l’ha mai scritta così……..!!!”
Tante volte mi chiamò da quella prima sera a darmi la nota, il passaggio, il colore… che il Benedetti Michelagnoli o altre sciagurate star dello show-business scaligero propinavano agli sciagurati Borghesi Lombardi plauditores in frac delle prime seconde o quant’altre soirées sommerse da piogge di petali e bocciòli di rose bianche e baciamano rosa e guanti da Questore a Sindaco, da Prefetto a Paolo Grassi, da Ghiringhelli a cavalier Meneghini…
…In Callas. E siamo arrivati al punto. Ma quella volta io non c’ero ancora. Era successo alcuni anni prima. Era e fu e sarebbe stata per sempre la mitica ovvero mitologica entrée di Maria Callas nell’Olimpo dei Druidi! La Prima serata del primo 7 Novembre, Sant’Ambrogio, della prima Norma della Divina. E del primo urlo poco trattenuto di Beniamino dal Fabbro: “Liberàte il Teatro da questo insopportabile flagello!”
Scandalo e sconquasso. Eccesso? Certo, era ed è arduo affermare che la voce della Divina non fosse dotata di una “magica” differenza, di un colore inconsueto, di una ineguagliata caratura “di petto”… Ma… Ma!!! Peccato che il Bellini quella nota, quelle note, quel “rigurgito”, via!, quella “callasizzazione”… non l’avesse mai pensata, prevista, vergata sul suo minuzioso spartito per soprano!!!
Ma non saremmo qui a parlarne a quasi 60 anni data, se la ”cosa” fosse finita lì. No. Dopo il delirio di platea, palchi d’onore e loggione, dopo il delirante temporale di petali sanremesi dei quali Lei fu inondata, dopo l’attesa di masse brividanti fuori dall’uscita degli Artisti, gli Eletti Le fecero corona al dopo-Teatro, ovvero al Biffi-Scala, al risotto all’onda consacrato da fiumi di Dom Perignon. E Lei era lì, al centro dei sapori e degli onori, degli sguardi del Signor CallasMeneghini, delle bave ambrosiane della Milano di rango, allorché…
…un altissimo Nero Sacerdote avvolto nel suo Nero tabarro verdiano, insalutato quanto inopportuno ospite, fece il suo ingresso in Sala. Ieratico, solenne, silenzioso, l’atrabile Demone della Milano-Perbene, s’arrestò a pochi metri, in faccia alla Divina. Scostò con gesto accurato il Tabarro, infilò due dita nel taschino del corpetto nero, ne estrasse un portamonete nero, ne distillò alcune monete, monetine per non strafare, indi ripose il portamonete, riavviò il lembo del Tabarro e, con gesto parsimonioso e nient’affatto melodrammatico, lanciò le monetine alla Divina, senza sfiorarla, avendo cura che esse cadessero sul piatto. Poi si volse indietro e si diresse all’uscita. Mentre la sala esplodeva, gli urli s’accatastavano, i frac s’intrecciavano alle lobbie, le divise dei camerieri sconcertati si affannavano alla ricerca delle divise, delle alte monture dei Carabinieri e delle Polizie, e urli, e fischietti e bèrci e improperi e “vergogna! vergogna!!!”
Beniamino dal Fabbro non aveva pronunciato verbo, non aveva dissimulato intenzioni o cenni di disprezzo. Tutto ciò che aveva da dire, nei più sublimi, minuziosi, didascalici dettagli, la Milano che Conta lo poté leggere nella sua cronaca della mattina su Il Giorno, il solo Quotidiano che non avesse eseguito l’Ordine, la Bolla di Mafia, di non dargli spazio, né da vivo né da morto.
Ma di che mondo vi sto parlando?! E di quant’altre e qual’altre Ere geologiche vi potrei buttare tra capo e collo i reperti, se solo ne avessi voglia e se non mi stessero da mezzora girando i coglioni al pensiero che voi che mi avete letto fin qui siete gli stessi che vi bevete ogni giorno che Dio mette in mediaset o in rai i miliardi di analfabetèmi di libera cultura democratica……?!

*In foto: Beniamino dal Fabbro http://it.wikipedia.org/wiki/Beniamino_Dal_Fabbro

**Scritto e Foto ricevuti direttamente da Girolamo Melis: http://girolamo.melis.it/

Girolamo: a chiamata… risponde!!!

Sabato 17 marzo 2012 Girolamo Melis, dal suo journal, gentilmente risponde ad una nostra chiamata che suonava più o meno così:

– All’amico del dinanimismo Girolamo Melis: Dài!!! –

“Segui; risveglia i morti,
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.”

… ed ecco a Voi la risposta… :


ALLORA, CARO ZAÌRO, SE IL GIOCO SI FA DURO, ENTRANO IN SCENA I DURI. PAROLA DI YHWH.

 

A Zaìro Ferrante
dal testo mesoretico del
Libro di Geremia.

(Traduzione incompiuta di Girolamo Melis)


1
Parla Geremia figlio di Celkìa tra i sacerdoti abitatori di Anatòt, Terra di Beniamino.
Parla con la Parola che gli dette Yhwh al tempo di Giosìa figlio di Amon, che di Giuda fu re quell’anno dieci e tre del regno suo, nei giorni di Ioachin di Giosìa figlio e re di Giuda , fino al compimento dell’anno dieci e uno dell’altro figlio di Giosìa, Sedecìa, che di Giuda fu re fino al dì del mese cinque, il giorno dell’esilio di Gerusalemme.

Parla Geremia.
“Così mi giunse Parola di Yhwh:
– Io te conobbi
Te prima di formarti nel ventre
Te prima che uscissi dall’utero
Te consacrai
Te feci Parola dei Popoli.”

E così io risposi:
– Oh Alto Yhwh
io sono un ragazzo
io non conosco parole.

Ma così l’Alto parlò ancora:
“Non dire ‘io sono un ragazzo’
ma a chi ti manderò tu andrai
e ciò che ti ordinerò tu annunzierai.
E non li temerai
Perché io t’ho fatto libero.
Parola di Yhwh.”

Poi la sua mano distese
E la mia bocca toccò
Così dicendo:
“Ecco. Le mie Parole
posi nella tua bocca
e posi te in questo giorno
sui popoli e sui regni
e potrai sradicare
e potrai abbattere
e potrai dare morte,
e potrai distruggere,
e potrai demolire,
e potrai costruire,
e potrai piantare.”

E la Parola di Yhwh mi disse
ancora:
“Tu che cosa stai vedendo,
Geremia?”
– Vedo un ramo di mandorlo,
io risposi.

E Yhwh disse:
“Vedesti bene
poiché vigila il mandorlo
sulla Parola mia
affinché essa si compia.”

E una seconda volta
Parola di Yhwh mi si rivolse:
“E ora tu cosa vedi?”

E io dissi:
– Una pentola vedo
Inclinata
E volge il volto a nord.

Parola di Yhwh così mi disse:
“E’ dal nord
Che il male s’aprirà
Su tutti gli abitanti della terra.
Vedi, io dal nord sto chiamando
Le famiglie dei regni
Parola di Yhwh
e verranno e ognuno
alle porte di Gerusalemme
porrà il trono
e contro le sue mura
e contro le città di Giuda.
Io la Parola contro loro scaglierò
e contro il male d’avermi abbandonato
e incensato altri dèi e chinato la testa
agli idoli artefatti.
E tu coràzzati e dritto le parole
Che io ti ordinerò
tu parlerai
e non tremerai davanti a loro
sennò sarò io che ti spaventerò
ai loro sguardi.
Oggi di te farò città fortificata
E colonna di ferro
E muri di bronzo
Contro tutta la terra
E i re di Giuda e i suoi principi
E contro i suoi sacerdoti
E contro il popolo tutto.
E tutti ti faranno guerra
Ma niente potranno contro te
Perché con te io sono
Parola di Yhwh
per liberarti.”

(……………………..)

*Per leggere la versione integrale del post/risposta direttamente da “Girolamo Melis journal”: http://girolamo.melis.it/2012/03/allora-caro-zairo-se-il-gioco-si-fa.html

**Per leggere la versione integrale della nostra chiamata: http://e-bookdinanimismo.myblog.it/archive/2012/03/17/all-amico-del-dinanimismo-girolamo-melis-dai.html

All’amico del dinanimismo Girolamo Melis: Dài!!!

Foto0077.jpgESTRATTO DA:  AD ANGELO MAI, QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DELLA REPUBBLICA ( Giacomo Leopardi )

…Disdegnando e fremendo, immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
Età nè suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità: sceso il sapiente
E salita è la turba a un sol confine,
Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
Segui; risveglia i morti,
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.

*LEGGI “AD ANGELO MAI, QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE DELLA REPUBBLICA”: http://www.leopardi.it/canti03.php

*LEGGI COMMENTO: http://it-it.abctribe.com/letteratura_italiana/ad_angelo_mai_ad_angelo_mai_fa_parte/_gui_322_35

GIROLAMO MELIS, DAL SUO JOURNAL, SALUTA “LE QUOTE BIANCHE”!!!

OGGI, 8 MARZO 2012. SALUTO “*LE QUOTE BIANCHE” AL CAMPIDOGLIO, CON QUESTO MIO ANATEMA CONTRO L’EGOISMO

by Girolamo Melis

Guardingo sulle feci_Pagina_1.jpg

DEDICATO A… CONTINUA A LEGGERE SU: http://girolamo.melis.it/2012/03/oggi-8-marzo-2012-saluto-le-quote.html

*Il Comitato per le Quote Bianche, di cui il Modavi e l’Associazione Valentina sono portavoce, si batte per ottenere maggiori spazi di rappresentanza per le persone disabili nelle istituzioni politiche ed economiche. Obiettivo del Comitato, cui hanno già aderito numerose altre associazioni, è quello di facilitare il cursus honorum di chi – come professionisti, lavoratori, studenti, etc. – a prescindere dai propri meriti personali, incontra inevitabilmente ed oggettivamente più ostacoli degli altri. Si tratta, prima di tutto, di una grande battaglia di civiltà che tutti noi dobbiamo combattere in prima persona per vincere l’atteggiamento “ghettizzante” che di fatto esclude milioni di persone dalle decisioni che riguardano la “cosa pubblica”…

l’8 Marzo alle ore 11.00, in cima al Campidoglio, metterà in scena una rappresentazione teatrale: la Corte di Giustizia degli Ultimi. Donne, disabili e l’attore fiorentino Paolo Bussagli, nel ruolo del PM, metteranno sotto accusa l’Egoismo, che, come in ogni processo che si rispetti, avrà un avvocato difensore e verrà sottoposto al giudizio del Giudice… CONTINUA SU: http://quotebianche.wordpress.com/

GIROLAMO… TI RICORDI DI BEPPE (VIOLA)?

beppe viola,girolamo melis,jannacci,dinanimismoIL DINANIMISMO RENDE OMAGGIO A BEPPE VIOLA… tanta poesia ma… anche tanta sostanza!!!

Un giorno disse: Era uno che per sembrare un genio avrebbe dovuto essere completamente diverso.”

http://youtu.be/zeVwlu88b1w

RIDO
Autori: Enzo Jannacci, Girolamo Melis, Giuseppe Viola Edizioni: Impala , RCA

http://discografia.dds.it/scheda_titolo.php?idt=994

http://youtu.be/7hG131zr4XA

Per il libro ” Quelli che… ” Dalai Editore, clicca qui: http://www.amazon.it/Quelli-che-boe-Beppe-Viola/dp/8860736153/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1324332706&sr=1-1

… PER LA SERIE: MICA VOGLIAMO MORIRE PROPRIO A NATALE??? di Girolamo Melis

TELETHONIZZATI DELL’ITALIA TELEVISIVA, RIBELLATEVI. DIVENTIAMO UNA FORZA!

di Girolamo Melis

8.png

Per esempio, ti è venuto in mente che l’altroieri – quando scrivevo di M’erda e di Torta al Cioccolato – stavo dicendo qualcosa di grosso?
E che alludendo a “ottimismo” e “pessimismo”, intendevo parlare della Chiacchiera?
E che dunque il dilemma “M’erda-TortaAlCioccolato” riguardava qualcosa somigliante a questa malafedosa e vergognosa offesa al Natale Cristiano, chiamata
“Bontà” col Timer Telethon.
E riguardava l’ipocrisia
della cosiddetta “Ricerca Scientifica”.
E riguardava l’indicibile business
dell’Associazionismo sulle spalle dei Deboli.
Insomma, amici, parlavo di Andicap.
Parlavo – dopo le lotte e i fallimenti degli anni scorsi, con Vincere!, con Dài!, con Tuttinpiedi!, e con “Io mi prendo cura di te” – parlavo, per fare solo un esempio, dell’indifferenza di questo nostro ex-Popolo verso l’immenso Popolo di Paraplegici e dei Tetraplegici. Le cui schiere, ogni anno, si infoltiscono di almeno 1500 nuovi deboli grazie alle Lesioni Spinali che né la Ricerca “scientifica” né la mitica OMS né la criminale Industria Farmaceutica hanno INTERESSE a studiare, curare, riparare, guarire.
Di questo parlavo.
E, dopo sei-sette anni perduti, voglio tornare a parlare di Fare Politica. Fare Politica della Cura e della Guarigione. Del diventare una Forza. Dell’uscire dalla solitudine dell’isolamento delle case, dei “lavori” assegnati per quote sociali, del non contare niente e dell’arrendersi.
Dobbiamo diventare una Forza.
Venire eletti in Parlamento.
Conquistare il Diritto di legiferare.
Imporre scelte Economiche, Imprenditoriali, Mediche.
Non venire a patti con i “Partiti” delle svergognate ideologie.
Non chiedere più a nessuno.
Non scendere a patti ma far pesare Forza Contrattuale.
Contare.
Come si fa? Ma scherziamo?!
Ci si incontra tra persone non chiacchierone, non burocratiche, non arriviste, non segaiuole. Si stanano i ricchi che hanno un andicap in casa, in famiglia, negli affetti, e si incoraggiamo a battersi insieme agli altri deboli, che sono, siamo, tuttinpiedi, fortissimi.
E mai, mai più “separati” da quelli che camminano, da quelli con altri andicap, dai tanti altri “deboli”, dai tanti altri emarginati e, sì, dalle Famiglie.
Si forma un Gruppo Dirigente per un Primo Programma.
Si fa un Organigramma dei Ruoli, delle Responsabilità e degli Impegni, Un Board d’Impresa.
Si incomincia a creare Lavoro. E si comincia a lavorare.
Si incomincia a fare Politica. E si comincia a imporre la nostra Potenza, le nostre Idee, con i nostri grandi Compagni di Viaggio.
E, da subito, mettiamo le carte in chiaro sulla menzogna della “Ricerca Scientifica” e sulla verità di ciò che è possibile fare.

(alla prossima puntata)…

… SCRITTO POSTATO DALLA REDAZIONE E LIBERAMENTE TRATTO DA: http://girolamo.melis.it/2011/12/telethonizzati-dellitalia-televisiva.html

SCRITTO di GIROLAMO MELIS, che – lottattando contro i vili – un giorno disse: almeno “gli assassini hanno il delirante coraggio di uccidere.”

 

girolamo melis,scritto,inedito,dinanimismo,milano,scrittore,ferrara“La ruota del 2006” di Girolamo Melis

 

Parlo con me m’interrogo m’incalzo impaziente

Non ho fretta non ho appuntamenti con la morte

se non lo stesso il solito il primo che lei mi fissò

nella sua estate – ho tenuto la parola di non assillare

di chiacchiere il tempo la storia i panorami cambievoli

eppure tu sai ch’io non m’ero  disposto alle voci spezzate

alle ricurve insinuazioni sottovento e ne ho dovute

sprezzantemente respingere di opinioni e  maschere

per non disattendere il semplice e il chiaro dell’ignoto

e non ho mai cercato un riparo nel vuoto

e mi son fatto trovare sempre nelle case scambiate

eppur sempre di pietra e calcina – mai vetrina.

 

M’interessa la vita che sta e va e tutto voglio sapere tranne le date del calendario – ho ascoltato la morte di Dario e non saprei nemmeno dirti se è rimasta impigliata nella vita o s’è avvinghiata all’haiku dell’anno ics o ypsilon lui che misurava

a millenni il giambo e irrideva Starobinski sopra e sotto

di sguincio alle parole e nemmeno s’altezzava al testo

d’una spesa in drogheria contrappuntando sonagli e barbagli siringhe distici elegiaci rapinose carezze letterarie ai culi innominati delle metropolitane rossa e verde.

 

Parlo con me e mi sdoppio senza scindermi nei visi tra i quali so distinguere chi mi distingue e corteggiare chi mi scansa e so stare di pietra e di carezza difronte a quell’unico viso costituito impastato nella creta delle parole nella tuonante leggerezza del sorriso senza scopo se non sorridere

– ci mancava proprio questo clamoroso dialogo dello specchio e il suo rilancio d’orizzonti e di materia

ci mancava sì questo definitivo richiamo del Semplice.

A che devo una cotanta straripante conchiglia di doni?

 

Ora perfino la cronaca dei giorni mi tocca rivivere

ora  febbricitante nell’attimo integro come un seme d’ossidiana ora finalmente disposti in cammino e in posa gli ultimi oggetti storici i petulanti ricordi ora ricostituiti nella  rammemorazione di casa heimat capanna di foglie e ciglia

Ora l’interesse mi fa vento e frescura ora si ritrova ai bordi del parco senza nome eppure tanto e tanto nominato tra il sonno e il risveglio ora ha i contorni della nonna ironica e della sua esorcistica carezza a lavar via il demonio.

 

Siediti accanto a me sulla panchina di Melville e Platone

fai posto e scosta il sorriso di Vittorini e  l’Ammannati che di posto ne tiene poco se non nel cuore e nell’aria

deferenti inchini ma sobri rivolgi al capoccia di Riguardone e no non ti stupire quello è mio Padre nel suo tessere

il telaio manuale in qua la trama e in là l’ordito

che il Figlio  ne sia costituito di mota e diamanti

non vedrai uscire nemmeno un piccolo ricordo né  vago né miliare ma tutto intero per te sarà l’interrogare.

 

E allora chiedimi non mi sorprenderai neanche tacendo

Il tuo silenzio sarà mia parola tu che non sai nascondere

difronte a me che non avevo fronte che per la morte

amica prima come ora come ora che m’hai rialzato il viso

ai respiri verdi e rossi e blu della terra e delle cose

Non ho fretta né alle domande né  al silenzio

Il tuo corpo m’è diventato amico come m’era bambino

L’indistinto da distinguere mondo in paesaggio e buio

Sono qui e prima di parlare ti bacerò le palpebre.

 

Al mio paese anche le chiese erano fazioni e gli uomini

che le reggevano vavassori di Dio non pastori

ché nessuno stava con alcuno né con la fede né

con la pietà – era questione di ruolo nella Lingua Italiana

Nemmeno le famiglie erano tribù ma parti del discorso

Il Padre mi dava del lei vivendo in me l’avvento

del Linguaggio del lignaggio e la malinconia m’irrigidiva

nei libri al centro dei giorni e delle notti – l’eros ordinava

gironi e movimenti sovrani silenzi cenni e segni.

 

Tu c’eri allora tra il demonio e il poeta tra voli spezzati

Delle starne delle lente camminate dei vecchi arguti impolverati da chiesa a chiesa tra orologi impettiti

E codici d’onore e l’ironia che razzava sussiegose brache

E niente mi si taceva né si poteva celare come ora che tu

Mi taci e mi sveli nella furia d’amore indicibile ma detto

Agli angoli delle strade nelle stanze nelle trappole tese eppure lente come la lettura dei giorni somiglianti

Da un secolo all’altro dal mondo antico a quest’istante.

 

Parlo con me e le domande sono tue dalla collina

Azzurra dalle crepe di vulcano e d’olivo dalla signoria della parola furiosa d’Ariosto dallo stupore neotecnico della radio dalla somiglianza affinità famigliare dallo scambio

Di religioni e paure – e parlo con me che mi guardi fino

Al fondo della ragione e non vedi altro che tutto il rossore

Il pallore dell’educazione al profondo della grammatica e della fonè dell’interpretazione sconfinata dietro lo sguardo dietro gli occhi chini le dita contorte gli assensi severi.

 

Vedi quello che non saprei mostrarti e che trattengo

Eppure non chiudo alle carezze – perciò parlo con me

Perché tu colga ogni aperto segreto e ne spacco il cemento

La saracinesca squartata dalla storia gli schermi dal viso

Scivolati come pioggia lacrime parole perdute balbettii – anzi mi vesto m’adorno delle tue mani messaggere

del diventare il linguaggio che mi offri in coppa e cesti tesori e primizie ad ogni rammemorazione che m’esplode dal petto ad ogni stretta di labbra di pugno di paesaggio.

Voglio parlarmi e dirti dei fulmini da casa a casa riflessi negli occhi appena coperti dalle tese larghe dei capoccia di sotto in su per non ammetterne la maestà la potenza l’intelligenza naturale di viandanti a mani serrate i fulmini alleati della mia infanzia coi loro servitori i tuoni goffi baritoni dei melodrammi valdorciani non umiliati eppure striscianti a cercare una valle amica, una mangiatoia

E voglio parlarmi del tacchino e del locio i maschi incontinenti nei cortili a rincorrere la tacchina e l’oca

 

E dirti che ho ancora rossore delle burle e gli sberleffi

che mi facevo di loro lanciandogli in faccia virtuose chicchirullàie per dirgli che mi sarebbero mancati e li volevo possedere un po’ come cani e un po’ come gatti impossedibili

e come i fulmini e poi li pregavo di avvicinarmi sfiorare

le mie carezze e tenere di me l’afrore della corsa e della furia tenermi  tra di loro con loro cortile nel cortile finché

mi ricordassero in lettura accasciato sul tavolo delle forme di formaggio pecorino col grande vecchio mèmore

 

e dirsi – e dirmi e dirti – del movimento degli Angeli e dei Troni e dell’abissale distanza di Dio nel verso della Commedia che lì imparavo nello stare e nell’andare del Verbo senese delle sillabe numerose delle vocali asciutte come l’olmo e la quercia nel canone di Pergolesi affidato a voci pure invirtuose e rudi ma non grezze come il vento del Monte Poliziano e dell’Amiata che mi bombarda ancora d’una tormenta di castagne e di more nei crepuscoli azzurri

nelle gerarchie di fazione nell’intolleranza della quiete.

 

Voglio parlarmi di quanto mi mancavi or è un secolo tu

con la tua barbarie dialettale che si fa lingua nella lettura

del mio ineffabile dire e mi rovescia l’abito della forma

quell’abito che fu per decenni di storia misura del sentire il sapere di terra canòpi tombe e litugie silenziose a Cervèteri a Chiusi negli sparuti avelli delle teche e vetrinette che risucchiano e fanno altra l’alterigia di Porsenna Re Vetusto

di niente signore d’oggetti e vasellame e ori e cianfrusaglie

se non del rango impolverato poi di mercantile latinità.

 

Che ci possiamo dire fuori dai nostri corpi armoniosamente distanti? Possiamo tradurre lingua in dialetto, occitano in vetero-senese? La fine della lontananza uccide oh non il soggetto ma l’essere e cosa se non l’essere ci parla di noi nella sola irripetibile voce superflua al di là del bene e del male del tempo e della storia e come mai potremmo stare agganciati a questo chiodo tremante che la petra trattiene e incassa e gioca e vèllica e convince affinché resti preda dl fatale tramonto nel suo colore d’alba senza voli.

 

Sommerso di libri sudati al mercato nero tra bombe e schegge e fucilate traccianti e scaricati dal carro sparigliato

Le fide bestie candide e scarne ferrate con perizia carezzo e arrivo poco più del ventre e schivo l’amica temibile coda

…‘vi sono grato Bellafrò e voialtre tra buche di bombe e strade sventrate per me solo per me’… e le sento ruminanti

come gatti ruzzare di beatitudine mentre la mia beatitudine odora come fai tu le pagine che sanno di cordite e di muffa

che scherzano mozartiane beffe di Stendhal

e l’Esercizio di  Loyola e il maltradotto Saussure

 

e m’acciambello alla calura brandendo una matita e pulendo incessantemente occhiali rudimentali finché il Monsignore fazioso mi congratula e scoreggia e s’asciuga la fronte

e mi piazza le Confessioni di Agostino gabellandole per sue

ma come posso dirti la vergogna – in quell’altèro godimento – per non saper competere alle gare di sputo più distante

e di lancio dei sassi al maggior numero di sfioramenti saltelli

sull’ansa larga dell’Orcia e così imparare a sorridere storto.

 

Le belle nascite le pagliuzze d’oro i temporali di parole

e il tumultuoso e ordinato scorrere abbattersi carezzevole  nell’alveo amante della comune famigliarità ci fanno

difronte e tra le braccia albero e gemma nel silenzioso stare difronte andare nel libero fatale librarsi – parlo di me

ma non ti porto su me poiché mi abiti e mi  dài la melodia

ben oltre il verso e la strofa tu che di parole fai romanzo e del romanzare fai il caldo e il fresco del corpo

mentre l’oro di perle s’intreccia sarmento notturno bagliore.

 

Schivano buche e crateri piaghe di traccianti arbusti inceneriti rotolanti pattini nuovi saldati ai piccoli pieditutto dopo il ritiro delle bombe e degli elmetti era scritto…

 

*

Finché t’avrò o non t’avrò vista nel vento

di pianura oceano o colle di pietre lucide sonore

Finché t’avrò o non t’avrò vista elettrica

di labbra increspate di capelli e fessure

– chinarti schivare quella indecente signoria di cielo e terra

e finché contro il vento t’avrò o non t’avrò vista

ora porre il capo ora il cuore ora l’uragano

io non dirò o dirò soltanto a me chi sei e non sei

in malinconico abbandono.

Eccomi (ecco me che ti risponde) quando m’avverti

da quella lontananza irriducibile che ruzza

sola come la gatta eppure sola disorientata

alla luna intramontabile nei brividi ardenti ora gelidi

al corpo innominabile. Ma dove sono io forse

nello spazio che fa il balzo del capriolo

o nel mezzosorriso della notte

non visto dalla luna indecisa tra la vita e la morte.

O sono nel contratto precipitare della pietra risacca

dalla sassaia alla forra alla schiuma evanescente al sole

Dove se non in fondo al nero mare scordato dal mito

alle smemorate nereidi asciugate di sale e di saliva

senza le parole che tanto servono ai viandanti

 

Le parole ti ritornano come tornano al sole le ombre

ch’esalano dai blu e dai gialli caldi di terra fecondata

e l’ombra t’oscura come una gelosia armata

irriducibile belva dall’intelletto al ventre in flagrante

competizione col Dio Luna e nemmeno scuoti il capo

verso me che mi pretendo Io e ti fronteggio

Da quale millennio o sputo del tempo il dito che ti indìca

e che s’incurva ha colto la memoria che siamo

prima dell’ordine che s’abbatte sulla vita e sulla morte

e che mi serra di braccia e battiti al caos ultima luce

ultima certezza del benedetto non voler sapermi

autore d’idee e di nominazioni – non mi son fatto figurare

da te per mio volere ma per il riconoscerti e per il canto d’Orfeo modulato nel tuo spartito divino e nel suo cànone

e non mi volterò perché così m’hai scelto e sei tutto

memoria e cosa  – tu senza anagrafe senza patria e cuore.

Tra i gonfi veleni angelici che immàrzano i greti

e i piselli odorosi ch’ora sarmèntano ora s’ergono

secondo il medesimo canto del divino riconosciuto

non oggetto e non soggetto ma il tutto del tutto

che il mondo chiama Niente ora sto nell’ascolto del luogo

e non so altro di te di quanto appare e trascolora

dagli urli sorridenti del sole tra i tremuli pioppi e le bramose

campiture di Osvaldo Licini che accompagnano e scandiscono innominabili corpi d’angeli ribelli e amalasunte

né mi sfiora la storia del colore e dei sapori

se non perché ne sono impastato nel sogno omicida

nell’impossibile disegno di-staccarmi una ad una

per mano d’unghiòli e artigli e diti e scotimenti d’ossa maestre

una ad una le cartilagini che trattengono all’ordine

umano l’essenza  amata del mio-tuo corpo d’amore. 

 

Ma io qui sto distante dall’energia che illumina di sé

nel sé ora immerso ora affiorante col braccio e col respiro

e non ti chiedo dimora né poesia ché mi desti laghi e torrenti

intessuti d’orrore e affannosa fuga – il sopravvivere m’è

vomito dissanguamento e le ombre che proiettano figure

che  consistono del reale…..

 


*SCRITTO POSTATO DALLA REDAZIONE E RICEVUTO DIRETTAMENTE DALL’AUTORE:

http://girolamo.melis.it/


 

 

IL DINANIMISMO E ZAIRO FERRANTE SU “STYLE VOGLIA D’ITALIA” di Martedì 29 Marzo

Cover_final_EmiliaRomagna-1.jpg

In Esclusiva
Girolamo Melis presenta:

con IL GIORNALE (quotidiano Nazionale) del 29 marzo,
lo speciale illustrato “STYLE
– VOGLIA D’ITALIA” interamente dedicato alla regione
“Emilia-Romagna, Terra di Cantanti”.
Il supplemento è a cura di Girolamo Melis e Luisa Allena.
Il progetto grafico è di Patrizia Colombo.


In questo numero – ovviamente reperibile in edicola – saranno presenti: Gianni Morandi, Lucio Dalla, Raffaella Carrà, Iva Zanicchi, Caterina Caselli, Laura Pausini, la dinastia dei Casadei, i Nomadi, Il Coro delle Mondine, Milva, Orietta Berti, Maurizio Vandelli, Vasco Rossi, Zairo Ferrante, Lo zecchino d’oro, Nina Zilli, Luciano Ligabue, Zucchero e Le figurine dell’Emilia-Romagna.


*Per l’anteprima dell’articolo su Zairo Ferrante e sul dinanimismo cliccare sui numeri delle seguenti pagine: pag. 45, 46, 47. indice degli Artisti-Cantautori presenti in questo numero.


**Per l’anteprima ed il pdf dell’intero numero di Style-voglia d’Italia: http://girolamo.melis.it/2011/03/il-giornale-style-voglia-ditalia-emilia.html

Pagine:«12345»