SCRITTO di GIROLAMO MELIS, che – lottattando contro i vili – un giorno disse: almeno “gli assassini hanno il delirante coraggio di uccidere.”

 

girolamo melis,scritto,inedito,dinanimismo,milano,scrittore,ferrara“La ruota del 2006” di Girolamo Melis

 

Parlo con me m’interrogo m’incalzo impaziente

Non ho fretta non ho appuntamenti con la morte

se non lo stesso il solito il primo che lei mi fissò

nella sua estate – ho tenuto la parola di non assillare

di chiacchiere il tempo la storia i panorami cambievoli

eppure tu sai ch’io non m’ero  disposto alle voci spezzate

alle ricurve insinuazioni sottovento e ne ho dovute

sprezzantemente respingere di opinioni e  maschere

per non disattendere il semplice e il chiaro dell’ignoto

e non ho mai cercato un riparo nel vuoto

e mi son fatto trovare sempre nelle case scambiate

eppur sempre di pietra e calcina – mai vetrina.

 

M’interessa la vita che sta e va e tutto voglio sapere tranne le date del calendario – ho ascoltato la morte di Dario e non saprei nemmeno dirti se è rimasta impigliata nella vita o s’è avvinghiata all’haiku dell’anno ics o ypsilon lui che misurava

a millenni il giambo e irrideva Starobinski sopra e sotto

di sguincio alle parole e nemmeno s’altezzava al testo

d’una spesa in drogheria contrappuntando sonagli e barbagli siringhe distici elegiaci rapinose carezze letterarie ai culi innominati delle metropolitane rossa e verde.

 

Parlo con me e mi sdoppio senza scindermi nei visi tra i quali so distinguere chi mi distingue e corteggiare chi mi scansa e so stare di pietra e di carezza difronte a quell’unico viso costituito impastato nella creta delle parole nella tuonante leggerezza del sorriso senza scopo se non sorridere

– ci mancava proprio questo clamoroso dialogo dello specchio e il suo rilancio d’orizzonti e di materia

ci mancava sì questo definitivo richiamo del Semplice.

A che devo una cotanta straripante conchiglia di doni?

 

Ora perfino la cronaca dei giorni mi tocca rivivere

ora  febbricitante nell’attimo integro come un seme d’ossidiana ora finalmente disposti in cammino e in posa gli ultimi oggetti storici i petulanti ricordi ora ricostituiti nella  rammemorazione di casa heimat capanna di foglie e ciglia

Ora l’interesse mi fa vento e frescura ora si ritrova ai bordi del parco senza nome eppure tanto e tanto nominato tra il sonno e il risveglio ora ha i contorni della nonna ironica e della sua esorcistica carezza a lavar via il demonio.

 

Siediti accanto a me sulla panchina di Melville e Platone

fai posto e scosta il sorriso di Vittorini e  l’Ammannati che di posto ne tiene poco se non nel cuore e nell’aria

deferenti inchini ma sobri rivolgi al capoccia di Riguardone e no non ti stupire quello è mio Padre nel suo tessere

il telaio manuale in qua la trama e in là l’ordito

che il Figlio  ne sia costituito di mota e diamanti

non vedrai uscire nemmeno un piccolo ricordo né  vago né miliare ma tutto intero per te sarà l’interrogare.

 

E allora chiedimi non mi sorprenderai neanche tacendo

Il tuo silenzio sarà mia parola tu che non sai nascondere

difronte a me che non avevo fronte che per la morte

amica prima come ora come ora che m’hai rialzato il viso

ai respiri verdi e rossi e blu della terra e delle cose

Non ho fretta né alle domande né  al silenzio

Il tuo corpo m’è diventato amico come m’era bambino

L’indistinto da distinguere mondo in paesaggio e buio

Sono qui e prima di parlare ti bacerò le palpebre.

 

Al mio paese anche le chiese erano fazioni e gli uomini

che le reggevano vavassori di Dio non pastori

ché nessuno stava con alcuno né con la fede né

con la pietà – era questione di ruolo nella Lingua Italiana

Nemmeno le famiglie erano tribù ma parti del discorso

Il Padre mi dava del lei vivendo in me l’avvento

del Linguaggio del lignaggio e la malinconia m’irrigidiva

nei libri al centro dei giorni e delle notti – l’eros ordinava

gironi e movimenti sovrani silenzi cenni e segni.

 

Tu c’eri allora tra il demonio e il poeta tra voli spezzati

Delle starne delle lente camminate dei vecchi arguti impolverati da chiesa a chiesa tra orologi impettiti

E codici d’onore e l’ironia che razzava sussiegose brache

E niente mi si taceva né si poteva celare come ora che tu

Mi taci e mi sveli nella furia d’amore indicibile ma detto

Agli angoli delle strade nelle stanze nelle trappole tese eppure lente come la lettura dei giorni somiglianti

Da un secolo all’altro dal mondo antico a quest’istante.

 

Parlo con me e le domande sono tue dalla collina

Azzurra dalle crepe di vulcano e d’olivo dalla signoria della parola furiosa d’Ariosto dallo stupore neotecnico della radio dalla somiglianza affinità famigliare dallo scambio

Di religioni e paure – e parlo con me che mi guardi fino

Al fondo della ragione e non vedi altro che tutto il rossore

Il pallore dell’educazione al profondo della grammatica e della fonè dell’interpretazione sconfinata dietro lo sguardo dietro gli occhi chini le dita contorte gli assensi severi.

 

Vedi quello che non saprei mostrarti e che trattengo

Eppure non chiudo alle carezze – perciò parlo con me

Perché tu colga ogni aperto segreto e ne spacco il cemento

La saracinesca squartata dalla storia gli schermi dal viso

Scivolati come pioggia lacrime parole perdute balbettii – anzi mi vesto m’adorno delle tue mani messaggere

del diventare il linguaggio che mi offri in coppa e cesti tesori e primizie ad ogni rammemorazione che m’esplode dal petto ad ogni stretta di labbra di pugno di paesaggio.

Voglio parlarmi e dirti dei fulmini da casa a casa riflessi negli occhi appena coperti dalle tese larghe dei capoccia di sotto in su per non ammetterne la maestà la potenza l’intelligenza naturale di viandanti a mani serrate i fulmini alleati della mia infanzia coi loro servitori i tuoni goffi baritoni dei melodrammi valdorciani non umiliati eppure striscianti a cercare una valle amica, una mangiatoia

E voglio parlarmi del tacchino e del locio i maschi incontinenti nei cortili a rincorrere la tacchina e l’oca

 

E dirti che ho ancora rossore delle burle e gli sberleffi

che mi facevo di loro lanciandogli in faccia virtuose chicchirullàie per dirgli che mi sarebbero mancati e li volevo possedere un po’ come cani e un po’ come gatti impossedibili

e come i fulmini e poi li pregavo di avvicinarmi sfiorare

le mie carezze e tenere di me l’afrore della corsa e della furia tenermi  tra di loro con loro cortile nel cortile finché

mi ricordassero in lettura accasciato sul tavolo delle forme di formaggio pecorino col grande vecchio mèmore

 

e dirsi – e dirmi e dirti – del movimento degli Angeli e dei Troni e dell’abissale distanza di Dio nel verso della Commedia che lì imparavo nello stare e nell’andare del Verbo senese delle sillabe numerose delle vocali asciutte come l’olmo e la quercia nel canone di Pergolesi affidato a voci pure invirtuose e rudi ma non grezze come il vento del Monte Poliziano e dell’Amiata che mi bombarda ancora d’una tormenta di castagne e di more nei crepuscoli azzurri

nelle gerarchie di fazione nell’intolleranza della quiete.

 

Voglio parlarmi di quanto mi mancavi or è un secolo tu

con la tua barbarie dialettale che si fa lingua nella lettura

del mio ineffabile dire e mi rovescia l’abito della forma

quell’abito che fu per decenni di storia misura del sentire il sapere di terra canòpi tombe e litugie silenziose a Cervèteri a Chiusi negli sparuti avelli delle teche e vetrinette che risucchiano e fanno altra l’alterigia di Porsenna Re Vetusto

di niente signore d’oggetti e vasellame e ori e cianfrusaglie

se non del rango impolverato poi di mercantile latinità.

 

Che ci possiamo dire fuori dai nostri corpi armoniosamente distanti? Possiamo tradurre lingua in dialetto, occitano in vetero-senese? La fine della lontananza uccide oh non il soggetto ma l’essere e cosa se non l’essere ci parla di noi nella sola irripetibile voce superflua al di là del bene e del male del tempo e della storia e come mai potremmo stare agganciati a questo chiodo tremante che la petra trattiene e incassa e gioca e vèllica e convince affinché resti preda dl fatale tramonto nel suo colore d’alba senza voli.

 

Sommerso di libri sudati al mercato nero tra bombe e schegge e fucilate traccianti e scaricati dal carro sparigliato

Le fide bestie candide e scarne ferrate con perizia carezzo e arrivo poco più del ventre e schivo l’amica temibile coda

…‘vi sono grato Bellafrò e voialtre tra buche di bombe e strade sventrate per me solo per me’… e le sento ruminanti

come gatti ruzzare di beatitudine mentre la mia beatitudine odora come fai tu le pagine che sanno di cordite e di muffa

che scherzano mozartiane beffe di Stendhal

e l’Esercizio di  Loyola e il maltradotto Saussure

 

e m’acciambello alla calura brandendo una matita e pulendo incessantemente occhiali rudimentali finché il Monsignore fazioso mi congratula e scoreggia e s’asciuga la fronte

e mi piazza le Confessioni di Agostino gabellandole per sue

ma come posso dirti la vergogna – in quell’altèro godimento – per non saper competere alle gare di sputo più distante

e di lancio dei sassi al maggior numero di sfioramenti saltelli

sull’ansa larga dell’Orcia e così imparare a sorridere storto.

 

Le belle nascite le pagliuzze d’oro i temporali di parole

e il tumultuoso e ordinato scorrere abbattersi carezzevole  nell’alveo amante della comune famigliarità ci fanno

difronte e tra le braccia albero e gemma nel silenzioso stare difronte andare nel libero fatale librarsi – parlo di me

ma non ti porto su me poiché mi abiti e mi  dài la melodia

ben oltre il verso e la strofa tu che di parole fai romanzo e del romanzare fai il caldo e il fresco del corpo

mentre l’oro di perle s’intreccia sarmento notturno bagliore.

 

Schivano buche e crateri piaghe di traccianti arbusti inceneriti rotolanti pattini nuovi saldati ai piccoli pieditutto dopo il ritiro delle bombe e degli elmetti era scritto…

 

*

Finché t’avrò o non t’avrò vista nel vento

di pianura oceano o colle di pietre lucide sonore

Finché t’avrò o non t’avrò vista elettrica

di labbra increspate di capelli e fessure

– chinarti schivare quella indecente signoria di cielo e terra

e finché contro il vento t’avrò o non t’avrò vista

ora porre il capo ora il cuore ora l’uragano

io non dirò o dirò soltanto a me chi sei e non sei

in malinconico abbandono.

Eccomi (ecco me che ti risponde) quando m’avverti

da quella lontananza irriducibile che ruzza

sola come la gatta eppure sola disorientata

alla luna intramontabile nei brividi ardenti ora gelidi

al corpo innominabile. Ma dove sono io forse

nello spazio che fa il balzo del capriolo

o nel mezzosorriso della notte

non visto dalla luna indecisa tra la vita e la morte.

O sono nel contratto precipitare della pietra risacca

dalla sassaia alla forra alla schiuma evanescente al sole

Dove se non in fondo al nero mare scordato dal mito

alle smemorate nereidi asciugate di sale e di saliva

senza le parole che tanto servono ai viandanti

 

Le parole ti ritornano come tornano al sole le ombre

ch’esalano dai blu e dai gialli caldi di terra fecondata

e l’ombra t’oscura come una gelosia armata

irriducibile belva dall’intelletto al ventre in flagrante

competizione col Dio Luna e nemmeno scuoti il capo

verso me che mi pretendo Io e ti fronteggio

Da quale millennio o sputo del tempo il dito che ti indìca

e che s’incurva ha colto la memoria che siamo

prima dell’ordine che s’abbatte sulla vita e sulla morte

e che mi serra di braccia e battiti al caos ultima luce

ultima certezza del benedetto non voler sapermi

autore d’idee e di nominazioni – non mi son fatto figurare

da te per mio volere ma per il riconoscerti e per il canto d’Orfeo modulato nel tuo spartito divino e nel suo cànone

e non mi volterò perché così m’hai scelto e sei tutto

memoria e cosa  – tu senza anagrafe senza patria e cuore.

Tra i gonfi veleni angelici che immàrzano i greti

e i piselli odorosi ch’ora sarmèntano ora s’ergono

secondo il medesimo canto del divino riconosciuto

non oggetto e non soggetto ma il tutto del tutto

che il mondo chiama Niente ora sto nell’ascolto del luogo

e non so altro di te di quanto appare e trascolora

dagli urli sorridenti del sole tra i tremuli pioppi e le bramose

campiture di Osvaldo Licini che accompagnano e scandiscono innominabili corpi d’angeli ribelli e amalasunte

né mi sfiora la storia del colore e dei sapori

se non perché ne sono impastato nel sogno omicida

nell’impossibile disegno di-staccarmi una ad una

per mano d’unghiòli e artigli e diti e scotimenti d’ossa maestre

una ad una le cartilagini che trattengono all’ordine

umano l’essenza  amata del mio-tuo corpo d’amore. 

 

Ma io qui sto distante dall’energia che illumina di sé

nel sé ora immerso ora affiorante col braccio e col respiro

e non ti chiedo dimora né poesia ché mi desti laghi e torrenti

intessuti d’orrore e affannosa fuga – il sopravvivere m’è

vomito dissanguamento e le ombre che proiettano figure

che  consistono del reale…..

 


*SCRITTO POSTATO DALLA REDAZIONE E RICEVUTO DIRETTAMENTE DALL’AUTORE:

http://girolamo.melis.it/


 

 

SCRITTO di GIROLAMO MELIS, che – lottattando contro i vili – un giorno disse: almeno “gli assassini hanno il delirante coraggio di uccidere.”ultima modifica: 2011-11-05T12:02:00+01:00da zairo-ferrante
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2 Commenti

  • …e ora che hai allagato/infestato piazza e strade del tuo Villaggio?
    Làsciami almeno esaltare il “lottattando”, parola-corpo, significante del suo significato, fusione mirabile di “lottare” e “tattare”, guerra di sensi di carezze e assaggi, sfinimenti e infine la sfibrata morte per trionfo vitale.
    Vale! Giro

  • Sine verba.

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