REQUIEM
È soltanto il colore del corallo
a tingermi la pelle, le mani aperte
in un sottile richiamo, a cogliere
il pianto, lacrime di mare, mare come
drappo funebre che mi cala sugli occhi.
È che forse riesco ancora ad accarezzare
le tue palpebre chiuse, di figlio, di madre,
di padre, di amico, di volto ancestrale,
di pietra, di fanciullo primordiale
su strade fatte di battiti di ciglia.
È qualcosa di strano che m’induce a correre,
tra queste nebbie che mi tagliano il fiato,
lungo le rogge di melanconica acqua,
tu che ti fermi come figura spettrale,
tu che emergi dal grigio come eterea fiamma.
Le farfalle, i pettirossi che smettono di cantare,
l’eclisse totale che tinge di nero il cielo,
l’argentea polvere, la pallida sabbia,
il crepuscolo sulla via che s’inerpica a vuoto,
l’onda che frange ogni suo dispiacere.
Le cose che s’ingegnano a fluttuare nel vento,
lungo i contorni del mondo che resto a guardare
distratto, il pensiero deviato da lontani profili,
le piante, le rose, le labbra, le rughe del tempo,
il sangue che scorre, che fruscia in calici antichi.
Sembra ora che il cielo sia solcato dalla stella del Vespro,
un lucore evanescente tra le spire blu oltremare,
e cammino tra le immote distese degli acquitrini,
sopra me un volo di lacrime che scendono lente
come acquerugiola, come un sommesso pianto.
Passo dopo passo procedo solo in questo guado,
volgendo lo sguardo verso grovigli di spine,
labirinti di siepi, di more selvatiche, di muschio,
passo dopo passo, solo, in una dolce foschia,
solo, con l’anima d’un corvo posato sul nulla.
Soltanto taglienti lame distese su aspre terre
sono i pensieri che giacciono addormentati
sul mio corpo nudo, cose lontane, boschi lontani,
rocce di scogliera battute da venti come addii,
fiamme che bruciano idoli, di pietra, di carne.
È la risacca degli anelli di fumo, semplice respiro
d’un cordoglio che è spento, disegnato a matita
sui fogli sottili del tempo che scorre, la memoria,
ecco cos’è, è memoria che eterna si staglia
tra le verdi colline che si delineano dentro.
L’anima? Non so, forse un cuore che pulsa vorace
tra tagli, cicatrici, veli che spianano il viso nel vento
degli anni che si consumano tetri, su tetra terra,
fiori recisi, fiori consunti che cadono esangui,
briciole sul sentiero per chi ha smarrito la strada.
L’anima? Eccola sporgersi alla fine del mondo,
al termine delle cose che precipitano nel mondo,
alla fine del deserto che copre ogni cosa, ogni casa,
il brivido della luce stellare, il calore delle parole,
le nude bocche socchiuse a rammarichi, a misteri.
Dove siete, miei piccoli amici? Radiosi raggi di luna
che vivete i miei sogni, nei ricordi dormite sereni?
Quali delizie gustate nell’ombra? In quali giardini?
In quali silenzi v’aggirate sperduti, presso quali dei?
Quale polvere siete, su cui poso i miei piedi?
Su velieri di ghiaccio affrontate marosi, le vele
nel gelido vento delle mie nostalgie, o liturgie
in cui le immagini vostre il tempo scolora,
quelle fotografie su cui scorro le dita, cercando
le voci, i solidi corpi, lo sbiadire degli occhi.
Muri cotti dal sole, cespugli, bisce tra i rovi,
finestre dai vetri spaccati, sogni sbreccati, mirtilli,
lamponi, lenzuola stese ad asciugare, profumi,
odori di cibi speziati, l’acre afrore di polvere e muffa,
la radio accesa, la voce che arde, la chitarra che langue.
E mi trovo a danzare, in questo sorgere del sole,
in questo immoto mondo che il sole sta per bruciare,
la morte ci ha divisi, la morte ci ha uniti, la morte
è solo un ricordo lontano, la morte ci brucia dentro
come il sole che giunge ad ardere questo immoto mondo.
Ecco, prendetemi la mano, la vernice sfregia i muri,
cola come un dispiacere su tele di vita erette al cielo,
le porte si chiudono, si chiudono gli occhi, i giorni
più brevi, i sogni più vividi, gli schemi più liberi
che intrecciano la vita con preziosi ricami.
L’integrità del cielo scivola via veloce, col suo spettacolo
di nuvole cariche di speranza, è il vento che gonfia
tutti i respiri del mondo come mongolfiere colorate,
il codice è nascosto tra le pieghe del vento, è la vita,
la vita che si spegne con l’ultima pioggia di stagione.
E mi viene da accarezzare il vestito, il velo, il sudario,
la polvere, la caligine, i pensieri scrostati come muri,
i mattoni che diventano treni, e navi, e zattere, e fuliggine,
mi viene da accarezzare questi fiori col sembiante di spettri,
e contemplo il vaso, il nastro che l’avvolge vezzoso.
Cammino distratto sul lungo fiume in tumulto,
cristalli i pensieri, come sassi che disegnano cerchi
nelle acque della coscienza, cristallo la memoria,
il rimbalzare del sasso sulla superficie del mondo,
quel mondo che dentro s’incrina, e dorme dolente.
Dove siete ora, miei miti dei tempi passati? Dove camminate?
Ancora in me siete liberi di cavalcare le praterie del dolore,
dell’amore, in me avete costruito cattedrali di bellezza,
un mattone dopo l’altro, una struttura dopo l’altra di luce
trasfigurata verso l’eternità, la mia, la vostra, nel tempo.
Qualcuno tra voi ancora sorride al mondo, trascinando con sé
gli strascichi di cicatrici dell’anima e delle età, ma lo stesso
vi amo di quell’amore che vive con gli anni, gli stessi che v’ho
regalato sull’altare dei miei giorni, oh maestri, oh compagni
di solitudini e noie, di ardori e passioni, di crescita sempre.
Eppure tra voi c’è chi ora è vapore, come sui vetri nei pomeriggi
di pioggia, un fantasma che vaga tra brughiere di storia,
le cui voci sono echi che come onde divine dalla mente, e dal cuore,
le volte immense dell’immenso universo vanno a dorare,
trasfigurando in cerchi d’argento lo splendore, e la tenebra.
Che m’abbiate insegnato a costruire me stesso, oh amici, oh miti,
è un dato di fatto, e ora siete sovrani su queste momentanee
terre di dolore, avete il dominio sulla nostalgia, sulla melanconia,
sui crepuscolo che conducono alla notte, ma solo per poco,
ché la vita avanza, e la notte ha la sua bellezza che toglie il fiato.
Dunque è solo questione d’amore questo restare in ginocchio
a far scorrere tra le dita le sabbie di un delicato suffragio,
è legno prezioso, è rimpianto leggero, è un grazie per sempre,
è profumo che non ha sorgente né foce, è un lieve sorriso
che incornicia il mio volto, un solco per gettare altri semi.
Giancarlo Fattori, giugno 2015
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*Versi ricevuti direttamente dall’Autore.
**Foto postata dalla redazione e liberamente tratta da: http://www.paleoantropo.net/reefs/coralli/biologia.htm