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ELOGIO ALLE STREGHE – Giovanna Mulas (appunti, riflessioni prima di ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’)

giovanna mulas,attivista dinanimista,collaboratrice,estratto,edito,dinanimismo,ferrara,sardegna“Ma in Dio crede?”
“Non ho piu’ bisogno di credere.Ora so.”  (C.G.Jung)

“Uomo conosci te stesso, e conoscerai l’Universo e gli Dei che in esso dimorano”. Così e’ inciso sul frontespizio del Tempio di Delfi. Penso alle donne e non necessariamente ‘streghe’, reiette comunque e nonostante del passato e del presente, e penso ai Sileni di Alcibiade.
Si dice fossero immagini ad intaglio, fatte in modo da poter essere aperte e dispiegate. Quando erano chiuse riproducevano la simpatica immagine deforme di un flautista, aprendosi rivelavano lo splendore e
la purezza di un’immagine divina. “Avendone fatto esperienza, anche lo stolto sa”, dichiarava Omero. Gl’ impedimenti basilari per farsi un’idea della realta’ sono l’ imbarazzo e la paura che, ostentando i pericoli, distoglie dal prendere iniziative. Erasmo avrebbe scritto che la follia libera magnificamente da entrambi. Fra gli uomini si e’
in pochi ad ascoltare il suo richiamo, a comprendere per quanti altri
vantaggi riesca utile non vergognarsi e essere pronti al vivere, non sopravvivere. E del resto cosa e’ lavita degli uomini se non un gran teatro in cui diversi attori recitano la propria parte fino a che un regista (IL Gran Regista? Natura o Dio
Burlone) chiede loro di uscire dalla scena. Credo che l’augurio da fare ai nostri figli sia quello di riuscire a sottrarsi, con conoscenza illuminata da un istinto primordiale, agli abusi della ragione.
Al momento della creazione di Abbaccai, la mia strega-accabadora in ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire’, mi chiedevo costantemente cosa poteva avvenire in una giovane vergine per non farle temere più la morte, quindi il sacro che l’accompagna. La sfida era far vivere un mito. Pure riflettevo sull’ iter che, si racconta, anticipa l’arrivo in loco dell’accabadora: quel levare ogni immagine sacra o amuleto dalla stanza del moribondo. Processando le streghe-reiette, i membri dell’Élite dominante non intendevano forse eliminare devianti o ribelli nel senso tradizionale della parola ma tentavano di rendere la comunità più omogenea, piu’ armonica: sostenevano gli ideali correnti del comportamento femminile. Una sorta di selezione della specie. Eppure, l’orientamento etico del Nuovo Testamento era opposto alla schiavitù come alla servitù troppo dura. Ogni enunciazione degli insegnamenti di Cristo sul perdono e l’amore, l’umiltà e la carita’ rappresentavano amaro rimprovero non solo di tutti i signori e padroni della terra ma anche della Chiesa stessa e dei prelati arroganti. Alexander King e Aurelio Peccei, fondatori del neo-malthusiano Club di Roma, nella prefazione al quinto rapporto al Club intitolato ‘obiettivi per l’umanità’ ’’ avvertivano: “si può
applicare la logica soltanto quando la gente e’ culturalmente preparata ad accettarne le severe necessità” (…)

Continua la lettura del pezzo dal Blog ufficiale di Giovanna Mulas:
http://giovannamulas.baab.it/2013/07/07/elogio-alle-streghe-appunti-e-riflessioni-prima-di-nessuno-doveva-saperenessuno-doveva-sentire/

*Estratto ricevuto direttamente da Ufficio stampa Isola Nera per Giovanna Mulas.

Sul Confine di ogni terra (Giovanna Mulas)

confine1.jpgOccorre imparare a camminare fino al Confine di ogni Terra, a non temerne la notte. Dopo tutto in bus, Caronte, basta una monetina per ritornare al mondo ‘vero’,  quello da musica finita e montagne intinte nel rosa, frastornati da risate, culi al vento,  eros scapigliati.
Risorgi, Terra! Ora che  i nostri stracci sono i più laceri alzati, ti prego, da questa tua erba bagnata di rosso… .
Caronte guida selvaggiamente, sobbalziamo tremando: non so se arriveremo a destinazione senza vomitare, o cadere. Nel cielo, volo a cerchio, gli avvoltoi: conto quattro o cinque vistose macchie nere.
Ai fianchi del sentiero appaiono, inerpicate furiosamente, le nuove case: assi di legno marcio e plastica, tubi di ferro che fungono da pilastri, cartone. Una accanto all’altra e sopra l’altra, a togliersi il respiro e togliercelo; arrancano tra cima e strapiombi, pronte ad essere spazzate via al primo spread. Strano, capirlo davvero oggi, nel
2013, e qui. Dopo tanto studiare, vivere, leggere, ascoltare, vedere e scrivere. A cosa è servita questa mia cultura? A cosa serve, a cosa porta se non all’impotenza della conoscenza? Una verita’ che ora mi da
fastidio: punge, lotta, spinge per uscire, rivelarsi ad altri. Io che pensavo di conoscerlo il dolore, di conoscere la morte. A tratti mi pare un film ed io una comparsa da Eroe per caso, universo parallelo quasi. E vorrei che lo fosse. Ma non è un film ed io non sono un’eroina, sono soltanto un’europea cresciuta a telefilm yankee e consumismo.
Per noi l’idea di aiutare equivale all’assistenzialismo, al mendicare.
Che posso saperne io di storiche ribellioni di un popolo
all’imperialismo, se non quello che ci è stato dato da mangiare e leggere per una vita? Sono formattata, io.
Siamo formattati e male, amici miei. L’importante e’ esserne consapevoli.
Chi siamo noi liberi pensatori,  per pretendere di unire i confini di un mondo da sempre troppo piccolo?.
Sognatori, pazzi, esploratori d’utopia…e ancora: chi o cosa è, seppure è, uno scrittore?.  Già definirci ‘noi liberi pensatori’ è chiuderci in una categoria, casta protetta da cattedra e recensioni positive o negative poco importa, l’essenziale è essere. Imbottiti dal più classico degli onanismi intellettuali, introiettati. Micromondo fatto
di narrativa da bancomat, la fisica felicita’ di un bicchiere di quello buono, salotto, salamelecchi, interviste, servizio in camera, specchi e maschere, e maschere e maschere e, canne e riesumazione di Marx.

Implosioni mentali su come eliminare la violenza dal mondo con la minore violenza possibile.
Probabilmente occorre non farci distrarre dai voli alti, ma nello stesso tempo aspirare ad essi.
E lo vedo, il mio mondo,  e mi da fastidio. In quel ragazzo sporco, addormentato sul bordo del marciapiedi alle undici di una domenica mattina, faccia al sole e saranno 30 gradi all’ombra, coperta logora tirata al mento, la gente che continua a scorrere e correre attorno, fiume senz’ argini.
Che società è questa, in grado di rendere fantasma un ragazzino, dilaniarlo, spegnerne la voglia di spaccare questo mondo che pare uscito da una pellicola yankee di classe zeta?.
TU SEI se consumi, TU SEI se produci. Se crolli lasci di funzionare
per il sistema.

E noi Liberi Pensatori, noi Scrivani. Da bolla protetta e colorata, enfatizzata, mitizzata senza consenso ne’ merito, serrati a ipotizzare poeticamente come cambiare il mondo con la letteratura, uccidendoci della stessa e dimenticando, volutamente o meno, che il mondo ‘vero’
sta fuori da un albergo a cinque stelle: è giù da una cattedra di cui non conosce l’esistenza. E non ne sente la mancanza.

Forse il mondo vero sta fuori da ogni autore, e per sua natura (…)

*Continua la lettura dal Blog ufficiale di Giovanna Mulas:
http://giovannamulas.baab.it/2013/04/21/chi-siamo-e-perche-siamo-noi-scrittori-qui-ora/

**Ricevuto direttamente da Ufficio Stampa Isola Nera per Giovanna Mulas.

***Foto postata dalla redazione del blog e liberamente tratta da: http://www.unradiologo.net/la-terra-di-confine

Antes del Confine di Giovanna Mulas (‘Nocturno Oltre Confine’, diario di viaggio in Colombia, estratto):

giovanna mulas,diario,colombia,estratto,blog,dinanimismo“(…) Era di maggio, ricordo, avevo otto anni e camminavo diretta alla scuola.
Prima di arrivare dovevo attraversare un pezzo di campagna agreste sarda, la tanto fotografata dai turisti annoiati, in quel periodo dell’anno in piena fioritura, fragrante di terra umida, rugiada. Cartella sulle spalle, avevo l’abitudine di camminare a testa bassa per “cercare quadrifogli”, andavo ripetendo alle amiche dell’Azione Cattolica. Vidi un uccellino morto, buttato sul ciglio della strada. Un dettaglio comune se vogliamo e di cui, diversi anni più tardi, avrei scritto in un racconto. L’uccellino lo ricordo ancora oggi talmente…bello nell’orrore, nella fissità della sua morte. Imponente, quasi. Di colorito spento, il corpo martoriato, invaso da formiche e parassiti ma la morte, spogliandolo di ogni dignità, in realtà lo rendeva assai dignitoso, un Re in esilio: nella fugacità di quell’attimo rappresentava per me un guerriero che aveva perduto, combattendo ferocemente, la sua battaglia migliore ché l’ ultima. Orgoglioso, ali schierate, ancora e nonostante in trincea, piume disseminate attorno. Il suo onore mi colpiva, attirando un’ ammirazione che a distanza di tempo oserei definire morbosamente malinconica: accerchiato, presidiato ma lui, eroe di tempi ed eventi, lì continuava a stare, imperterrito e orrendo, sfacciatamente fisso, ancora padrone di un campo di battaglia dove, ne ero certa, si era dibattuto fino all’ultimo respiro. Pensai che doveva essere caduto in volo. Non so perché, ma in quell’istante lo pensai. Facile preda di un falco, forse. Ed eccoti qui, mio eroe: a lasciare che sia l’orrore della realtà a parlare del tuo orrore. Deriso dalla vita, sfigurato dalla morte mentre il Tutto attorno, mondo indifferente alla sua carne e ad un’ essenza -se mai c’era stata o c’è, in lui e in noi-; si affollava di erbe e fiori nuovi, odori e umori all’attenti della primavera.
Un mondo-sistema creato per deridere il più debole, macchina-sistema a sfigurarlo, a trasformare in eroicità la normalità di un uccellino che nient’altro domanda alla vita se non di essere un uccellino.
Rabbiosa per l’insensibilità diffusa, avevo calciato terra e sassi addosso a formiche e parassiti inutili…”.

*Estratto ricevuto dalla stessa Scrittrice:
 
 
Continua a leggere dal Blog ufficiale:
 

**Foto postata dalla redazione del dinanimismo e liberamente tratta da: http://www.viaggiscoop.it/foto/107688/colombia/san-agustin.ashx

Sierra Nevada di Giovanna Mulas (estratto da ‘Nocturno Oltre Confine’, diario di viaggio in Colombia. Di prossima uscita.)

ciudad_perdida_lost_city_sierra_nevada_santa_marta_colombia111-300x199.jpgNella hall veniamo fermati da due indigeni della Sierra Nevada. Lui è piccolo di statura, pallido, con la barba, la schiena curva. I capelli chiari, raccolti a coda di cavallo, ha in mano il tradizionale poporo. Lei più alta e snella, pelle olivastra e labbra sottili, tratti affilati, scarni. Ha occhi di cerbiatta all’erta, capelli neri lucidi, fluenti. Ogni qualvolta il compagno apre bocca lei abbassa gli occhi, zittisce rispettosa. Do ad entrambi una cinquantina d’anni circa, vestono con tunica e gonna lunga di cotone lei, tunica e pantalone lui. Gli abiti sono ricamati a mano, in quel bianco totale che appartiene al loro costume tradizionale. Borsa multicolore, a tracolla. Non padroneggiano pienamente la lingua spagnola, il loro idioma è l’Aruhako, una delle lingue derivate dal Chibcha. Si presentano come due compagni del partito comunista della Sierra Nevada. Con calma raccontano che oggi nella Sierra Nevada di Santa Marta sopravvivono i discendenti dei Tayrona, quattro etnie differenti ma imparentate fra di loro. Nel nord, vicino al mare vivono i Wiwa. All’interno vivono i Kogui, gli Arzario nelle vicinanze della città perduta dei Tayrona, chiamata Teyuna. Nel sud della Sierra invece, vivono gli Arhuakos, che si definiscono Ika. Isabel estrae dalla borsa un pc portatile, lo mette in funzione, inserisce un cd-rom. Il video riguarda riti tribali, la natura della Sierra divorata lentamente dalle costruzioni dellostraniero, dal turismo, dal commercio. Isabel e Clodomiro si confessano disperati: l’esercito e i paramilitari sono appostati da tempo sulla montagna ad accerchiare, controllare le tribù. Los compañeros temono che prima o poi le tribù vengano decimate, affinché i soldati possano impossessarsi di ciò che appartiene storicamente agli indigeni.
“…Per il governo colombiano tutto è interesse economico. Ha affidato ad imprese multinazionali progetti di infrastrutture, con tutto il danno culturale e ambientale che ne deriva…”, dice Clodomiro. S’infila una foglia di coca in bocca, mastica lentamente. Passa il bolo all’interno della guancia destra, continua a parlare. “…La Sierra Nevada di Santa Marta è un massiccio immenso, che si estende su un’area di circa 18.000 km quadrati, nel nord, nei dipartimenti di Magdalena, Cesar e La Guajira. Le cime piu alte della Sierra e di tutta la Colombia sono il picco Colón e il picco Bolivar.
Nella Sierra Nevada di Santa Marta ha vissuto l’uomo sin da tempi remoti…i primi insediamenti umani risalgono a dodicimila anni fa. Pastrana, Uribe e Santos hanno reso la Sierra una località alla moda. Uribe, durante una delle innumerevoli visite, convocò uno dei suoi primi Consigli Comunitari in Nabusimake, più tardi inaugurò il primo paese talanquera: Gunmak, dove, accolto con tutti gli onori dalla tribù, venne vestito con un sacro mantello arhuaca… .
Eppure, i programmi alimentari promossi dagli Stati Uniti mirano ad un cambio radicale dell’agricoltura e dell’alimentazione tradizionale delle tribù della Sierra Nevada: si punta alla produzione di caffè, cacao e legna da fuoco, portando lentamente alla scomparsa della coca. Il vero problema è l’identità culturale e la sopravvivenza di chi come noi, tradizionalmente, ha sempre riverito la pianta come sacra. Togliendo la coca, si sta distruggendo lo spirito stesso del popolo. Il passato ci mostra che tutte le visite presidenziali non sono gesti di amicizia come qualcuno può pensare, ma un piano macabro: l’applicazione di una politica nella quale solo i grandi capitali trovano riscontro. Il governo colombiano, d’accordo col piano imperialista statunitense, ha avviato progetti come el Puerto Multiproposito di Dibulla, la Represa de Rancheria e un porto carbonifero che va costruendosi lentamente e nel silenzio del mondo.
Si trovano in un territorio che gli indigeni considerano sacro…si cementifica sfruttando la bellezza incontaminata della natura locale… si sta puntando alla colonizzazione degli indigeni.
In questo momento possiamo solo urlare per difenderci.”.
In Colombia vivono 87 popoli indigeni identificati che parlano 64 lingue amerindie. Questi sono i gruppi umani più vulnerabili alla violenza e ai suoi effetti interni: secondo cifre ufficiali, approssimatamente il 2% del totale dei desplazados del paese appartiene a una etnia indigena (…).

Leggi dal Blog ufficiale:
http://giovannamulas.blogspot.it/2012/03/sierra-nevada-estratto-nocturno-oltre.html

*Foto liberamente tratta da: http://www.uniquecolombia.com/destinos/santa-marta/ciudad-perdida/

Da “Storie di Donne, di Lupi, di Amore e di Onore lavato con il Sangue” di Giovanna Mulas

giovanna mulas,estratto,blog,dinanimismo,foto lupi“…Pascale distolse lo sguardo dalla bellezza melanconica e struggente di lei. Non le domandò perché Roma le era divenuta troppo stretta. E ringraziò, osò ringraziare con tutta l’anima il suo Dio, seppure un Dio lassù c’era anche per i peccatori come Pascale, perché aveva portato Mariana fino alla Sardegna, fino a Nuoro. Fino a lui. E non le domandò se l’affetto che la legava a maistru Pili somigliasse all’amore, non lo domandò e neppure le chiese se stava bene con lui; sempre accanto a lui. E se lui la cercava, nel buio, se lei cercava lui. E se quando lui la cercava lei avrebbe voluto dormire oppure sognare, o sperare, di stare tra le braccia di un altro.
Solo gli montò in corpo una rabbia tragica, incontenibile, simile ad una bestia chiusa in gabbia da troppo, troppo. E la bestia s’aggira nervosa dietro le sbarre e ringhia, sbava a chiunque le si avvicini anche solo per portarle il cibo. E’ nervosa, la bestia ed è furiosa perché sa che prima o poi avrà uno spiraglio di libertà e allora, se necessario, sbranerà pure il padrone che le dà da vivere pur di possederla tutta, la sua libertà. 
E possedere la libertà del suo padrone. 
-E’ ora che andiate-, disse Pascale a denti stretti…” 

Estratto ricevuto da: Giovanna Mulas

( GM, da ‘Storie di donne, di Lupi, di Amore e di Onore lavato con il Sangue’, racconti, 2010 ).

Continua a leggere ‘Il Rumore degli Alberi’ dal blog ufficiale: http://giovannamulas.blogspot.com/2012/02/il-rumore-degli-alberi-da-storie-di.html

**Foto liberamente postata dalla redazione e tratta da: http://www.parks.it/parco.nazionale.abruzzo/man_dettaglio.php?id=10138

GIOVANNA MULAS: Nuova edizione per ‘Mandinga’​. Estratto da ‘Acta Est Fabula’.

giovanna mulas,estratto,blog,dinanimismo,libro.2010: in pochissime copie numerate nasce la prima edizione del romanzo ‘Mandinga’, adattato ai più giovani, ultimo titolo della mia trilogia noir dopo ‘Dannati’ ( http://www.ibs.it/code/9788889322192/mulas-giovanna/dannati.html ) e ‘Nessuno doveva Sapere, Nessuno doveva Sentire (accabadora)’:

Illustrazioni curate da Noemi, mia figlia.

L’estate 2012 vedrà la nuova edizione del romanzo, integrale, con distribuzione nazionale.
I dettagli durante le prossime settimane.

Intanto, dal blog ufficiale, un estratto dal libro, nato come forte critica sociale:http://giovannamulas.blogspot.com/2012/02/il-virus-sembra-colpire.html

Questo estratto da ‘Acta Est Fabula’, datato 2008, nasce da un mio sogno.

Scrissi il romanzo durante la via crucis che seguì la cura, attraverso vari ospedali d’Italia, di uno dei miei figli. Stilisticamente ritengo ‘Acta est Fabula’ opera autonoma che stabilisce un gioco ipertestuale con alcuni personaggi tratti da Il Tempo di Un’Estate, datato 1993. Qui acquisiscono un ruolo secondario: negli stessi corridoi che vedono il loro camminare lungo il primo romanzo, si apre una finestra che conduce, appunto, in ‘Acta est Fabula’.
Ho dedicato l’opera a quelle donne e quegli uomini che, con coraggio e disperazione, vivono combattendo ogni giorno il tumore e, ancora prima, ai loro cari: che riusciate a vedere.
E a tutti i Nino e i Massimo del mondo.

Dal blog ufficiale, un estratto dal libro: http://giovannamulas.blogspot.com/2012/02/quei-frammenti-di-maschere-estratto-da.html

Giovanna Mulas

LA MIA COLOMBIA Giovanna Mulas, 2011, estratto da ‘NOCTURNO OLTRE CONFINE ( la mia Colombia)’

colombia-283x300.gif“Sergente, abbiamo oltrepassato uno strano confine qui.

Il nostro mondo ha sterzato sul surreale.”

(da ‘Salvate il soldato Ryan’, 1998.)

Penso, sono convinta, che prima di mettere piede in latinoamerica, appena un istante prima, un attimo soltanto; debba avvenire un click, dentro. Un click che ti spalanchi occhi e mente alla verità che attende paziente, appena varcherai quell’Exit all’aeroporto: l’America non è New York e Stati Uniti, come da sempre è dato da bere a noi europei fin da tenera età. L’America non è poliziotti fighi e buoni dalla mascella grossa, ‘guerra di pace’ e croci al milite ignoto, film e telefilm yankee di famiglie bionde, belle, magrissime e felici, di successo, Gold’S Gym e beveroni dietetici miracolosi per ragazzone vitaminizzate, da Boutique Cavalli.

Gli Stati Uniti rappresentano una piccola parte della mappa, e non certo la migliore.

Deve acchiapparti un qualcosa, clandestino mio, che ti prepari al dopo, a ciò che hai letto solo in parte sui libri di scuola, immaginato solo in parte con Marquez, Mercedes Sosa o le riviste di una sinistra italiana che, in parte, è già destra, o ascoltato da qualche amico convinto di aver fotografato l’El Dorado, a lamenti per il costo salato della visita guidata.

E magari l’hai fatto sorridendo, ascoltare intendo, pensando che si, che quella del latinoamerica in fondo è gente del terzo mondo, caduta in disgrazia non si capisce come e perché, sempre troppo allegra e un pò alla tanos, alla napoletana, sfigati allegri che forse neppure le lavatrici conoscono, non come noi europei fashion per il Colosseo e i cinesi a frotte a visitarlo. O il Festival di Sanremo.

Penso che il click, il click vero, debba avvenirti prima nelle viscere, poi nel cervello. Nello stesso, infinitesimale secondo nel quale cominci a odorare, non richiesto, un’aria non tua, già violentata, dominata storicamente.

Devi metabolizzarti diverso. TU diverso e superbo, ammaestrato, addestrato dalla nascita come dominatore ma, in realtà, piccolo e banale schiavo, salottiero, plagiato dal sistema.

Penso pure che se quel click non lo senti tanto vale che resti a casa, in umile accettazione, affondato in poltrona a ubriacarti di bugia fino alla fine dei tuoi giorni ché in fondo, come diceva mia nonna, la verità va incontro soltanto a chi ha il coraggio di cercarla.

Del resto, la mia, è solo la visione di un’europea.

Mi sveglio alle 5.30 che il sole già filtra tra le persiane basse della nostra camera, all’undicesimo piano del Gran Hotel di Medellin.

Il clima è dolce, un misterioso campanile batte un rintocco e mezzo e, tra sirene e grida, la vita che mai ha smesso di correre, giù per le strade diritte. C’è odore di caffè appena fatto e brioches. Sento bussare la porta della camera accanto, probabilmente si sta servendo la colazione. Ancora fatico ad adattarmi all’altitudine: il mal di testa feroce e le vertigini che sento avvolgermi cervello e sangue, mi obbligano ad ingoiare due pastiglie. Siedo sul letto e attendo di sentirmi meglio. Col caffè passerà, penso e spero. Butto giù qualche appunto, una doccia, stiro i muscoli, mi trucco, lamento la mancanza di un bidet, ho fame. Sveglio Gabriel alle 7.30; alle 11.00 abbiamo appuntamento all’asentamiento de los desplazados La cruz y La Honda, alla scuola Luz de Oriente, per un reading e dialogo con pubblico. Con noi ci saranno il rapper sudafricano Ewok, idolo dei più giovani, e la cubana Magìa Lopez, cantante e maestra di hip hop. E’ dal giorno del nostro arrivo in Colombia che Fernando e Gloria del Festival mi dicono che dovremo fare molta attenzione a tutto: il barrio La Cruz appartiene agli sfollati, è difficile, pericoloso, è la periferia perduta, volutamente dimenticata dalla città. Colombia è il paese al mondo col maggior numero di desplazados, a causa della guerriglia interna. Il denominatore comune, l’obiettivo principale della guerriglia che spinge indirettamente o direttamente le genti ad abbandonare la propria terra e quindi finire in rovina è il narcotraffico. Occorrono terre per produrre le sostanze e si obbligano i contadini all’emigrazione: se questo non avviene volontariamente, i contadini vengono uccisi. Ciò accade sistematicamente anche in zone minerarie o nelle coltivazioni di palme da olio (cocco). E’ denunciato il reclutamento forzato di bambini, il corpo delle donne, ulteriore atrocità di una guerra imposta, è oggetto costante di violenza: bottino di guerra per i paramilitari. Si stima che circa il 70% degli sfollati ha vincoli con la terra che si sono visti costretti ad abbandonare: proprietari, gestori, occupanti. Si registrano dai 4 ai 6 milioni di ettari di terra abbandonati. L’ ONG Osservatorio dei diritti umani e dello Sfollamento, considera che la cifra reale degli sfollati per il conflitto armato interno dalla metà degli anni ottanta supera i 5 milioni di persone. Circa l’80% degli sfollati sono donne e bambini e secondo la commissione di politica pubblica sullo sfollamento forzato, il 43% delle famiglie ha come capofamiglia una donna. Nel 68% le donne capofamiglia restano sole. Mi raccontano che durante le ultime settimane un paio di insegnanti sono scomparse da La Cruz, per essere state ritrovate qualche giorno dopo torturate e uccise in mezzo alla foresta, pistola in mano e braccialetto delle FARC. Incastrate, uccise perché ritenute sovversive, ribelli. Perché ai ragazzini non si deve insegnare a pensare o creare quanto, solo, a vivere. Il come verrà dettato dall’istinto di sopravvivenza. Los compañeros sostengono che gli Stati Uniti “pagano un tanto a cadavere” secondo il Plan Colombia, e il governo colombiano incassa. Ufficiali, soldati e un numero imprecisato di cittadini comuni hanno intascato ricompense dallo Stato per presentare false denunce anonime contro loro vicini e conoscenti, mandandoli a morte. E’ la caccia alle streghe, sotto lo storico silenzio dei media mondiali, i falsi positivi: militanti di sinistra, intellettuali, maestri o contadini, aborigeni.

Centinaia di cittadini inermi sequestrati da esercito e paramilitari o paracos (gruppi di mercenari di ultradestra, fascisti, retribuiti dalla politica governativa), assassinati e rivestiti con una tuta mimetica con il simbolo delle FARC per permettere agli assassini di passare all’incasso. Omicidi pagati dallo Stato colombiano e, al di sopra di questo, dal governo degli Stati Uniti. Il Plan Colombia, “Plan for Peace, Prosperity, and the Strengthening of the State” ( Piano per la pace, prosperità e consolidamento dello Stato ) è in realtà una tenaglia con la quale l’imperialismo impone la sua prepotenza in America Latina. Il governo colombiano, con le sue sette basi militari statunitensi, registra un importante introito economico proprio grazie alla droga venduta al principale consumatore nel mondo: gli Stati Uniti. La popolazione colombiana soffre da varie decadi dei devastanti risultati di questo negozio che si traducono nell’esistenza di mafie e le loro formule di estorsione, nell’incremento della violenza e della corruzione, nei confronti politici senza soluzione, repressione militare e paramilitare contro i civili etc.

Cani sporchi camminano indolenti, zigzagando per il sentiero di fanghi e sabbia. L’autista ascolta Cumbia Peruana a manetta. La Chiva, Il coloratissimo, stretto e caratteristico pullman colombiano sobbalza e frena a scatti. Sbuffa e accelera, da una ventina di minuti ha abbandonato la strada principale. Sale e la strada si fa più stretta fino a divenire impervio sentiero di montagna. Capita d’incrociare –non si sa come, vista la mulattiera- altri pullman. Penso “ora ci blocchiamo qui o cadiamo di sotto”. L’autista, esperto o solo incosciente, sterza, accosta un istante approfittando di cespugli e affossamenti laterali, sfiora di qualche millimetro l’altro pullman e ne viene sfiorato, frena, sterza ancora, saluta il collega al volante e, incredibilmente, riesce a proseguire. Senza litigare lanciando insulti come accadrebbe tra noi tanos, come noi italiani veniamo chiamati in America latina.

Medellin ed i suoi eleganti grattacieli la vedo come la prima volta: racchiusa, circondata da colli e catene di montagne intinte nelle nuvole. Da quel sentiero mi pare un mondo a parte; di un’eleganza fallace, troppo mostrata. L’autista de La Chiva guida selvaggiamente, noi sobbalziamo ridendo e tremando un poco: non so se arriveremo a destinazione senza vomitare. Nel cielo, volo a cerchio, gli avvoltoi: conto quattro o cinque vistose macchie nere. Ai fianchi del sentiero appaiono, inerpicate furiosamente, altre ‘case’: assi di legno marcio e plastica, tubi di ferro che fungono da pilastri, cartone. Una accanto all’altra e sopra l’altra, a togliersi il respiro; arrancano tra cima e strapiombi, pronte ad essere spazzate via alla prima alluvione.

E capirò il crack tra i più giovani, capirò il popolo zombies, capirò la violenza. Odoro l’ingiustizia, la prepotenza dell’imperialismo nella miseria delle strade untuose, nei bambini semi nudi e scalzi, nelle ragazzine in vendita ai turisti annoiati. Sento le viscere farmi le capriole, dentro. Perché? Perché qui e così?

Perché c’è chi ha dieci e chi, come loro, il Nulla. E non pretendono più di questo nulla.

“Voi poeti dovete raccontare al mondo ciò che noi viviamo qui”. Così mi hanno detto i bambini abbracciandomi, quei rifugiati della scuola de los desplazados, figli della guerriglia e tutti figli nostri, con la strada negli occhi, affogati nel fango del sistema che qualche buon borghese neppure è in grado d’immaginare e che nessun uomo, solo perché tale, ha il diritto di conoscere, tanto meno vivere.

Strano, capirlo davvero oggi, nel 2011, e qui. Dopo tanto studiare, vivere, leggere, ascoltare, vedere e scrivere. A cosa è servita la mia cultura? La letteratura, la poesia…a cosa è servita? Io che pensavo di conoscerlo, il dolore, e di conoscere la morte.

Strano, per me.

A tratti tutto mi pare un film ed io una comparsa da Eroe per caso, un universo parallelo quasi. E vorrei che lo fosse. Ma non è un film ed io non sono un’eroina, sono soltanto un’europea cresciuta a telefilm yankee e consumismo. Per noi l’idea di aiutare equivale all’assistenzialismo, al mendicare. Che posso saperne io di desaparecidos, di torture e storica ribellione di un popolo all’imperialismo se non quello che ci è stato dato da studiare e leggere per una vita? Sono formattata, io.

Leggo la mia poesia alle persone raccolte in quello stanzone troppo vasto e vuoto, mentre dei bambini scalzi giocano tra le sedie, i cani passeggiano fiutando pulci e presenti. Devo trattenere il pianto, stringo i denti, serro la mascella. Tutto mi sembra inutile, banale, offensivo quasi delle condizioni di questa gente. E sento che per i miei compagni la sensazione è la stessa. Ci scattano delle foto che vedrò in seguito, diffuse dalle agenzie di stampa internazionali: io, Gabriel, Ewok e Magia abbiamo l’espressione smarrita, i volti carichi di sconcerto. In particolare, riguardando l’immagine apparsa sul quotidiano nazionale El Colombiano, rifletterò sul perché la foto è stata scattata soltanto a noi poeti. E’ normale, mi dico. Ma perché non ai bambini, con noi, i veri protagonisti di quella scuola e della vita, di quella vita non…vita? Ripenserò al mondo a parte dei poeti…può un poeta stare davvero con la gente e rappresentarla (superbia più grande) oppure, d’istinto e sempre e comunque è portato a rappresentare se stesso?

Dopo la lettura, avverto l’impulso bestiale di fuggire. “Per oggi è troppo”, penso “…non posso, io non posso…che ci faccio qui? Qui, a che serve la mia poesia?”. I bambini mi si avvicinano bloccando all’istante il mio volo mentale: mi abbracciano, mi baciano le mani, mi ringraziano per le poesie.

Un piccolo, sporco e lacero, tirandomi per il braccio mi prega di restare a mangiare con loro. Lo abbraccio stringendolo al ventre, gli bacio la testina rasa e nascondo le lacrime che, ancora, mi colgono: “claro que si”, gli dico, “comemos juntos”, e vorrei fare di più per loro che mangiarci assieme.

Nel terrapieno accanto alla scuola ci sono uomini che zappano: Giacobo e Marcela, compañeros che hanno accolto me e Gabriel al nostro arrivo raccontandoci sulle ultime insegnanti scomparse e del lavoro della FARC tra i monti, ci dicono che quelle persone stanno scavando un canale per la discarica di una ‘casa’, e i vicini aiutano il nuovo desplazado a farlo. Sul terreno arido della scuola alcuni volontari hanno avviato una piccola coltivazione di cipolla e aglio.

Rimango colpita dai poeti tedeschi Regina Dyck e Thomas Wohlfahrt, direttori rispettivamente di Internationales Literaturfestival Bremen e Literaturwerkstatt Berlin. Gli sfollati hanno preparato per tutti noi autori con affetto, cura e chiaro sacrificio due pentoloni enormi di fideos de arroz con carne, cotti per ore all’aperto sotto il sole cocente. Zuppa calda di riso con tranci di carne e fagioli, platano, cipolla e aglio, accompagnata da litri di limonata. I due poeti annunciano che hanno da fare e torneranno in albergo subito, con un taxi. Dopo un’intervista rilasciata al volo ad un inviato dell’agenzia EFE, m’infilo in una delle tre lunghe code di persone in attesa del pranzo. Più di un desplazado fa per cedermi il suo posto, per evitarmi l’attesa. Dico che no, va bene così: noi siamo uguali agli altri. Aspettiamo il nostro turno sotto un sole d’inverno colombiano, trenta gradi all’ombra. Queste persone, con la loro immensa dignità e semplicità mi scaldano l’anima: c’è chi si avvicina per farsi una foto con la poeta de Italia, chi mi bacia ringraziandomi, chi ci guarda con affetto grande, chi mi porge la sua bambina di pochi mesi affinché l’abbracci per portarle fortuna e mi confida che ama l’Italia e Ungaretti, scattando un’altra foto. Mi danno un ottimo cafecito tinto, dopo la zuppa mangiata poggiando il piatto in plastica sulle ginocchia. E mi guardo attorno.

Eroi. Qui gli unici eroi sono questi uomini e queste donne che vedo camminare scalzi e con un orgoglio che non si piega neppure davanti a secoli di repressione. Loro che, comunque, sorridono. Popolo di disperati costretti dalla guerriglia a lasciare le loro terre senza nulla pretendere se non la vita, i figli in braccio e il domani vuoto. Sono loro gli eroi. Noi, soltanto europei.

“E la chiesa come si sta muovendo?”, domando laconica a Marcela e Giacobo, che sorridono. In fondo non ho bisogno di risposta, conosco la storia e qui mi basta guardare, sentire dentro, ascoltare la gente.

“Come sempre. Dalla parte del potere”, mi dicono.

Penso ai miei figli e la loro fortuna, nonostante. Penso a los desplazados, abbandonati da un dio burlone, se esiste un dio, e dalla natura, dal mondo stesso. Ad un governo populista che elargisce 50 dollari ogni due mesi per tenere calme le acque, evitare ribellioni violente e far pensare alla gente che si fa qualcosa per loro. Il Governo corrotto ruba miliardi, al popolo vanno le briciole e la zuppa di fagioli e riso quando gira bene. Penso che il governo colombiano non è poi così diverso dall’italiano. Penso al futuro che vedranno questi bambini, a come lo vedranno se lo vedranno. E spero che il dolore non bruci loro gli occhi, ché la carne è già tatuata. Vorrei avvolgerli, portarli con noi vorrei e vorrei e durante il viaggio di ritorno piangerò soltanto, per ciò che avrei voluto per loro, tutti figli nostri, e mai avrei immaginato… non così, non…così.

Mi salutano adios muchacha, tutti i bambini, dalle finestre della scuola. In pullman, riscendiamo verso il mondo vero. E già non lo vedo come prima.

Ora so che nulla sarà più come prima (…).

Giovanna Mulas (Nuoro, 1969) è scrittrice, poetessa, giornalista e pittrice. Ventinove libri pubblicati a oggi tra sillogi, poesia, romanzi, saggistica.

Presente in centinaia di antologie internazionali con racconti e poesie.

Pluri-accademica al merito, 60 primi premi letterari internazionali vinti l’ultimo dei quali ricevuto a Taormina dall’Europclub e la Regione Sicilia, premiati anche Ennio Morricone per la musica, Carla Fracci per la danza, Istvan Horkey per la pittura e la giornalista e opinionista Rai Barbara Carfagna per il giornalismo d’opinione.

A Ostia le è stato assegnato il Premio Città di Ostia per la Cultura (giugno 2011)

È stata tradotta in 5 lingue, due volte candidata al Nobel per la letteratura per l’Italia.

Membro onorario della GSA, Giornalisti Specializzati Associati di Milano, dirige le riviste di letteratura Isola Nera (in lingua italiana) e Isola Niedda (in lingua sarda), diffuse nel mondo e consigliate UNESCO. Dal format originale in lingua spagnola Isla Negra, fondato dal marito Gabriel Impaglione, poeta e giornalista argentino.

Ha presenziato, ufficialmente per l’Italia e prima artista sarda nella storia dell’evento, al prestigioso Festival Internazionale di Poesia di Medellin, Colombia, primo d’importanza al mondo, Premio Nobel alternativo dal Parlamento di Svezia.

www.giovannamulas.it – il sito ufficiale, a cura del giornalista Simone Piazzesi

quattro pagine ufficiali in Facebook Italia: Giovanna Mulas (I, II, III) e dialogo con Giovanna Mulas

contatti di lavoro: Dott. Alberto Asero, Asero & Partners European Literary Agency, Torino

**Estratto ricevuto direttamente da: Ufficio Stampa Isola Nera

**Immagine liberamente postata dalla Redazione e tratta da:  http://www.puntocritico.net/2011/07/07/obiettivo-colombia/


Estratto di Roberta Murroni

iceberg.jpgIn verità vi dico: dissolvetevi.
Si ,dissolvetevi! Perché tanto, come ben vedete, non potrete mai scaldare il cuore di un iceberg.
Ride di voi, si prende gioco di voi.Poi vi frantuma. Mille piccoli pezzi, sparsi per terra, uno sull’altro,uno sotto l’altro.
Tanti pezzi di carne e sangue.
Non so più dove raccogliere parti di me.
Mi mancano delle dita, un occhio, una delle mie tre paia di labbra: non mi trovo più.
E non mi riconosco.
Esternamente tutto è perfetto, ma basta cercare.. trova il tarlo! Trovalo e buttalo fuori!

Ah, dissolvetevi! Allontanatevi finchè potete! Sotto viso d’angelo Mostro si nasconde!
Annientatelo con il fuoco! L’iceberg perirebbe solo con un alito caldo dopo un bicchiere di caffè.