Tagged with " scrittore"

25 APRILE CON una poesia di GIUSEPPE BARTOLI

25 APRILE 

DSCN2230L’importante è non rompere lo stelo  
della ginestra che protende  
oltre la siepe dei giorni il suo fiore  
C’é un fremito antico in noi  
che credemmo nella voce del cuore  
piantando alberi della libertà  
sulle pietre arse e sulle croci  
Oggi non osiamo alzare bandiere  
alziamo solo stinti medaglieri  
ricamati di timide stelle dorate  
come il pudore delle primule:  
noi che viviamo ancora di leggende  
incise sulla pelle umiliata  
dalla vigliaccheria degli immemori  
Quando fummo nel sole  
e la giovinezza fioriva  
come il seme nella zolla  
sfidammo cantando l’infinito  
con un senso dell’Eterno  
e con mani colme di storia  
consapevoli del prezzo pagato  
Sentivamo il domani sulle ferite  
e un sogno impalpabile di pace  
immenso come il profumo del pane  
E sui monti che videro il nostro passo  
colmo di lacrime e fatica  
non resti dissecato  
quel fiore che si nutrì di sangue  
e di rugiada in un aprile stupendo  
quando il mondo trattenne il respiro  
davanti al vento della libertà  
portato dai figli della Resistenza.

PER INFO SULLA BIOGRAFIA DI GIUSEPPE BARTOLI la Redazione del Dinanimismo rimanda i Lettori al seguente BLOG DI POESIA di Carla Natali: http://natakarla.blogspot.it/2012/04/25-aprile-giuseppe-bartoli.html

**FOTO POSTATA DALLA REDAZIONE DEL BLOG E LIBERAMENTE TRATTA DA: http://tracceinappennino.blogspot.com/2014/02/un-inverno-le-spiagge.html

Due parole con Emilio Diedo intervista di Zairo Ferrante

Diedo,una sommatoria sulla tua attività di scrittore e di recensore.

emilio_diedoTi confido che c’è stato più di qualche momento (per vari motivi, a seguito di circostanze poco piacevoli) in cui avrei voluto mollare e chiudere definitivamente con la letteratura. Ma, volente o nolente, non posso non rinnegare quanto ho scritto, tra pubblicazioni varie (presenza in una ventina di antologie, 4 e-book personali, una quindicina di libri cartacei autonomi e tantissimi altri lavori on-line, tra cui credo che cinquecento recensioni siano anche poche da annoverare, e posso dire di vantare un altrettanto voluminoso quantitativo di lavori in sospeso: almeno tre romanzi ed una dozzina di racconti da rivedere; delle circa 3700 poesie che ho scritto in parte in qualche modo ne ho pubblicate ed in parte sono ancora delle bozze, e probabilmente rimarranno tali). Mollare mi darebbe l’impressione di non aver mai scritto niente. È proprio il far finta che in tutti questi anni non abbia prodotto assolutamente niente che non mi permette di cessare. Poi, il concorso letterario internazionale San Maurelio, che curo ormai da una quindicina d’anni, è anche questo un mio impegno non indifferente, a cui non vorrei, almeno per ora, rinunciare. È una soddisfazione ammettere d’aver scritto una grande quantità di belle cose. Probabilmente alcuni lavori potranno essere mediocri, ma, con onestà critica ed umana, penso che nel mio curriculum ci siano anche delle realizzazioni di valore. Quando penso alle mie affermazioni nel 2000, alla Biennale d’Arte Contemporanea “Città di Roma-Jubilæum 2000” (vincitore assoluto per la letteratura edita ed inedita – allora ero un po’ più giovane!) ed all’inclusione tra i “Magnifici dieci” in una delle riviste del gruppo editoriale San Paolo, mi basta per convincermi che la mia scrittura non sia una realtà che sta unicamente nella mia testa. Per cui al momento, in quella che considero una pausa di riflessione, e non certo un anno sabbatico, perché intanto scrivo sia per me (limando, rivedendo ed abbozzando) sia per altri (recensioni, prefazioni e presentazioni in genere), medito su come impostare le prossime tappe, quelle che potrebbero significare gli eventi più importanti della mia vita di scrittore. Il prossimo romanzo, già in itinere da diverso tempo, e che spero di poter pubblicare verosimilmente da qui ad un anno, o poco oltre, sento che potrebbe essere un elemento determinante. “O la va o la spacca”, come s’usa dire. Dopo di che, e solo allora, nella peggiore delle ipotesi, penserei di mollare.

Emilio Diedo poeta, cosmico ed innovatore, vuoi definire la tua matrice estetica.

Prima di dichiararmi poeta cosmico mi sentirei di proclamarmi proprio come m’intendi tu: poeta innovatore. Non saprei dire se sia, la mia, un’estensione sui generis, tale da pormi, anche oggi, tra le avanguardie. Forse agli inizi, una trentina d’anni orsono, quando veramente avevo intenti provocatori nei confronti dei contemporanei ed osavo sperimentare a tutto tondo, allora sì che potevo connotarmi tra le avanguardie. E mi piaceva apparire tale. In me, parlando di letteratura, c’è sempre stato uno spiritello libero e ribelle agli schemi prefissati. Però, ci tengo a dirlo, entro certi limiti. Perché penso che le regole, di qualsiasi natura siano, stiano alla base della civiltà e della democrazia. Per cui, pur essendo un ribelle, non mi riterrei uno spregiudicato nichilista, quello che nel sociale si dice il trasgressore per eccellenza. Anche ora sono precipuamente anticonformista, è verissimo. Ma il fondamento che governa il mio rendermi controcorrente è un minimo di buon senso, che credo stia alla base dei rapporti sia civili (civici e sociali) sia di tutti quegli altri che regolano la globale convivenza e le organizzazioni di pertinenza, senza le cui regole (statuti, regolamenti, canoni… convenzioni) cadrebbe il significato di reciprocità tra uomo e uomo e, nello specifico, tra artista ed artista. Solo in seguito, grazie anche e soprattutto alla diretta conoscenza che ho avuto nei riguardi di uno dei pionieri della poesia cosmica, il ferrarese Guido Tagliati, m’è piaciuto alimentarmi alla stessa fonte. Attualmente ritengo d’avere elaborato un mio equilibrio cosmico ed estetico che mi consente, quasi ogni volta che mi va di cimentarmi nella poesia, di letteralmente “spaziare nella materia cosmica”. Sulla poesia cosmica non ho intenzione di aggiungere altro. A suo tempo ne ho ampiamente parlato. Mi riferisco ad un’analoga intervista fattami ed ampiamente diffusa dal neo-futurista Roby Guerra un paio d’anni fa.

Emilio, cos’hai detto che stai preparando?

Ho anticipato nella prima risposta che il mio prossimo obiettivo è narrativo: un romanzo. Tipologia fantastica, con piano storico proiettato di qualche secolo nell’avvenire. Altro non voglio aggiungere. A parte il fatto che mi riprometto, da qui in avanti, di curare appunto più la narrativa piuttosto che la poesia. So già in partenza che alla poesia non potrò mai rinunciare. Una cosa tuttavia credo d’averla messa ben a fuoco, nel taccuino dei miei programmi. D’ora in poi, se uscirò con nuovi lavori, saranno esclusivamente di narrativa o, al limite di prosa teatrale.

Che ne pensi della poesia di questi ultimi anni in generale e di quella cosmica nel particolare?

Credo che mai come oggi (quest’ultimo ventennio) ci sia stato un così accanito contrasto tra il nuovo ed il tradizionale, o, nello specifico, tra la libertà ed il canone. Non avrei pensato che ancora ci fossero così tanti “canonisti”. Troppi. E per la maggior parte avversi nei confronti degli innovatori. Accaniti oppositori! È certamente un peccato, ché non porta progresso, né estetico né d’intenti, tra le fila dei poeti. Tuttavia le avanguardie esistono… alla faccia di chi non le gradisca! Quanto alla poesia cosmica, o altrimenti cosmo-poetica, credo che sia l’unica finalità sulla quale possa trovare ragione d’esistere la stessa poesia. Sia i canonisti, puri o metrici che siano, sia gli innovatori ormai ne hanno saputo cogliere l’alto senso poietico ed ispiratore. Magari senza nemmeno rendersene conto. È chiaro poi che, al di là delle singole posizioni, ognuno voglia accasarsene un certo uso. Tu lo sai che, per quello che mi riguarda, avrei le idee molto chiare in proposito, ma mi riservo d’affermare unicamente che anche quel minimo senso che i poeti, come del resto gli artisti in generale, sanno coglierne rende più appetibile la fruizione della poesia, intesa in tutte le sue forme tipologiche. E, prima ancora, ritengo che stuzzichi gli autori che vogliano consciamente creare suggestive metafore, stimolanti allegorie, più concettuali significanti.

Cosa significa per Diedo la poesia cosmica tra passato e presente? Avrà un suo fortunato avvenire o sarà un concetto limitato nel tempo?

Del mio modulo cosmico d’interpretare la poesia ne parlai esaustivamente qualche anno fa, tramite la suaccennata intervista di fattispecie e per mezzo d’un saggio sui due fondatori storici della poesia cosmica: il veneziano Ugo Stefanuti ed il ferrarese Guido Tagliati, ormai ambedue defunti. Pace alle loro anime! Saggio pubblicato in diversi siti online e che avevo pubblicato, in forma cartacea molto più ridotta, diversi anni prima su Literary. Lì davo le mie personali coordinate della poesia cosmica. Devo per altro ammettere che si tratta d’una definizione per certi versi asfissiante, teoreticamente piena, assoluta, difficile ma, per quanto parossistica e finanche proibitiva potesse apparire, ritengo non sia impossibile da applicarsi. Ribadisco che per me la cosmo-poetica è la vera poesia di questo presente. Sono pure convinto che continuerà ad avere discendenze più o meno forti, e probabilmente anche tra di loro contrastanti, per lo meno per qualche decennio ancora. Ma vorrei far presente che, come anticipai nel saggio ora citato, la cosmo-poetica non è stata una scoperta contemporanea, bensì è stata semplicemente espulsa da un utero che la stava da troppo tempo partorendo, praticamente da che mondo è mondo. Essa esisteva fin dalle origini della poesia, da sempre. Il fatto è che non se n’era riconosciuta la valenza. E non ne era di conseguenza data una propria definizione. Le arti in generale, nessuna esclusa, sia nazionali sia internazionali, anche extraeuropee, ne sono da sempre coinvolte, facendone un uso più o meno ampio. Non chiedermi di citare nomi. Non mi piace farne, perché non vorrei che mi si considerasse di parte. Ce ne sarebbe da fare un lungo elenco. Ne sortirebbe una lista di nomi interminabile – è risaputo che la memoria facilmente può ingannare.

Nel concludere vorrei il tuo parere sui corsi di scrittura creativa…. CONTINUA SU: http://www.literary.it/rubriche/dati/intervista/ferrante_zairo/due_parole_con_emilio_diedo.html

SCRITTO di GIROLAMO MELIS, che – lottattando contro i vili – un giorno disse: almeno “gli assassini hanno il delirante coraggio di uccidere.”

 

girolamo melis,scritto,inedito,dinanimismo,milano,scrittore,ferrara“La ruota del 2006” di Girolamo Melis

 

Parlo con me m’interrogo m’incalzo impaziente

Non ho fretta non ho appuntamenti con la morte

se non lo stesso il solito il primo che lei mi fissò

nella sua estate – ho tenuto la parola di non assillare

di chiacchiere il tempo la storia i panorami cambievoli

eppure tu sai ch’io non m’ero  disposto alle voci spezzate

alle ricurve insinuazioni sottovento e ne ho dovute

sprezzantemente respingere di opinioni e  maschere

per non disattendere il semplice e il chiaro dell’ignoto

e non ho mai cercato un riparo nel vuoto

e mi son fatto trovare sempre nelle case scambiate

eppur sempre di pietra e calcina – mai vetrina.

 

M’interessa la vita che sta e va e tutto voglio sapere tranne le date del calendario – ho ascoltato la morte di Dario e non saprei nemmeno dirti se è rimasta impigliata nella vita o s’è avvinghiata all’haiku dell’anno ics o ypsilon lui che misurava

a millenni il giambo e irrideva Starobinski sopra e sotto

di sguincio alle parole e nemmeno s’altezzava al testo

d’una spesa in drogheria contrappuntando sonagli e barbagli siringhe distici elegiaci rapinose carezze letterarie ai culi innominati delle metropolitane rossa e verde.

 

Parlo con me e mi sdoppio senza scindermi nei visi tra i quali so distinguere chi mi distingue e corteggiare chi mi scansa e so stare di pietra e di carezza difronte a quell’unico viso costituito impastato nella creta delle parole nella tuonante leggerezza del sorriso senza scopo se non sorridere

– ci mancava proprio questo clamoroso dialogo dello specchio e il suo rilancio d’orizzonti e di materia

ci mancava sì questo definitivo richiamo del Semplice.

A che devo una cotanta straripante conchiglia di doni?

 

Ora perfino la cronaca dei giorni mi tocca rivivere

ora  febbricitante nell’attimo integro come un seme d’ossidiana ora finalmente disposti in cammino e in posa gli ultimi oggetti storici i petulanti ricordi ora ricostituiti nella  rammemorazione di casa heimat capanna di foglie e ciglia

Ora l’interesse mi fa vento e frescura ora si ritrova ai bordi del parco senza nome eppure tanto e tanto nominato tra il sonno e il risveglio ora ha i contorni della nonna ironica e della sua esorcistica carezza a lavar via il demonio.

 

Siediti accanto a me sulla panchina di Melville e Platone

fai posto e scosta il sorriso di Vittorini e  l’Ammannati che di posto ne tiene poco se non nel cuore e nell’aria

deferenti inchini ma sobri rivolgi al capoccia di Riguardone e no non ti stupire quello è mio Padre nel suo tessere

il telaio manuale in qua la trama e in là l’ordito

che il Figlio  ne sia costituito di mota e diamanti

non vedrai uscire nemmeno un piccolo ricordo né  vago né miliare ma tutto intero per te sarà l’interrogare.

 

E allora chiedimi non mi sorprenderai neanche tacendo

Il tuo silenzio sarà mia parola tu che non sai nascondere

difronte a me che non avevo fronte che per la morte

amica prima come ora come ora che m’hai rialzato il viso

ai respiri verdi e rossi e blu della terra e delle cose

Non ho fretta né alle domande né  al silenzio

Il tuo corpo m’è diventato amico come m’era bambino

L’indistinto da distinguere mondo in paesaggio e buio

Sono qui e prima di parlare ti bacerò le palpebre.

 

Al mio paese anche le chiese erano fazioni e gli uomini

che le reggevano vavassori di Dio non pastori

ché nessuno stava con alcuno né con la fede né

con la pietà – era questione di ruolo nella Lingua Italiana

Nemmeno le famiglie erano tribù ma parti del discorso

Il Padre mi dava del lei vivendo in me l’avvento

del Linguaggio del lignaggio e la malinconia m’irrigidiva

nei libri al centro dei giorni e delle notti – l’eros ordinava

gironi e movimenti sovrani silenzi cenni e segni.

 

Tu c’eri allora tra il demonio e il poeta tra voli spezzati

Delle starne delle lente camminate dei vecchi arguti impolverati da chiesa a chiesa tra orologi impettiti

E codici d’onore e l’ironia che razzava sussiegose brache

E niente mi si taceva né si poteva celare come ora che tu

Mi taci e mi sveli nella furia d’amore indicibile ma detto

Agli angoli delle strade nelle stanze nelle trappole tese eppure lente come la lettura dei giorni somiglianti

Da un secolo all’altro dal mondo antico a quest’istante.

 

Parlo con me e le domande sono tue dalla collina

Azzurra dalle crepe di vulcano e d’olivo dalla signoria della parola furiosa d’Ariosto dallo stupore neotecnico della radio dalla somiglianza affinità famigliare dallo scambio

Di religioni e paure – e parlo con me che mi guardi fino

Al fondo della ragione e non vedi altro che tutto il rossore

Il pallore dell’educazione al profondo della grammatica e della fonè dell’interpretazione sconfinata dietro lo sguardo dietro gli occhi chini le dita contorte gli assensi severi.

 

Vedi quello che non saprei mostrarti e che trattengo

Eppure non chiudo alle carezze – perciò parlo con me

Perché tu colga ogni aperto segreto e ne spacco il cemento

La saracinesca squartata dalla storia gli schermi dal viso

Scivolati come pioggia lacrime parole perdute balbettii – anzi mi vesto m’adorno delle tue mani messaggere

del diventare il linguaggio che mi offri in coppa e cesti tesori e primizie ad ogni rammemorazione che m’esplode dal petto ad ogni stretta di labbra di pugno di paesaggio.

Voglio parlarmi e dirti dei fulmini da casa a casa riflessi negli occhi appena coperti dalle tese larghe dei capoccia di sotto in su per non ammetterne la maestà la potenza l’intelligenza naturale di viandanti a mani serrate i fulmini alleati della mia infanzia coi loro servitori i tuoni goffi baritoni dei melodrammi valdorciani non umiliati eppure striscianti a cercare una valle amica, una mangiatoia

E voglio parlarmi del tacchino e del locio i maschi incontinenti nei cortili a rincorrere la tacchina e l’oca

 

E dirti che ho ancora rossore delle burle e gli sberleffi

che mi facevo di loro lanciandogli in faccia virtuose chicchirullàie per dirgli che mi sarebbero mancati e li volevo possedere un po’ come cani e un po’ come gatti impossedibili

e come i fulmini e poi li pregavo di avvicinarmi sfiorare

le mie carezze e tenere di me l’afrore della corsa e della furia tenermi  tra di loro con loro cortile nel cortile finché

mi ricordassero in lettura accasciato sul tavolo delle forme di formaggio pecorino col grande vecchio mèmore

 

e dirsi – e dirmi e dirti – del movimento degli Angeli e dei Troni e dell’abissale distanza di Dio nel verso della Commedia che lì imparavo nello stare e nell’andare del Verbo senese delle sillabe numerose delle vocali asciutte come l’olmo e la quercia nel canone di Pergolesi affidato a voci pure invirtuose e rudi ma non grezze come il vento del Monte Poliziano e dell’Amiata che mi bombarda ancora d’una tormenta di castagne e di more nei crepuscoli azzurri

nelle gerarchie di fazione nell’intolleranza della quiete.

 

Voglio parlarmi di quanto mi mancavi or è un secolo tu

con la tua barbarie dialettale che si fa lingua nella lettura

del mio ineffabile dire e mi rovescia l’abito della forma

quell’abito che fu per decenni di storia misura del sentire il sapere di terra canòpi tombe e litugie silenziose a Cervèteri a Chiusi negli sparuti avelli delle teche e vetrinette che risucchiano e fanno altra l’alterigia di Porsenna Re Vetusto

di niente signore d’oggetti e vasellame e ori e cianfrusaglie

se non del rango impolverato poi di mercantile latinità.

 

Che ci possiamo dire fuori dai nostri corpi armoniosamente distanti? Possiamo tradurre lingua in dialetto, occitano in vetero-senese? La fine della lontananza uccide oh non il soggetto ma l’essere e cosa se non l’essere ci parla di noi nella sola irripetibile voce superflua al di là del bene e del male del tempo e della storia e come mai potremmo stare agganciati a questo chiodo tremante che la petra trattiene e incassa e gioca e vèllica e convince affinché resti preda dl fatale tramonto nel suo colore d’alba senza voli.

 

Sommerso di libri sudati al mercato nero tra bombe e schegge e fucilate traccianti e scaricati dal carro sparigliato

Le fide bestie candide e scarne ferrate con perizia carezzo e arrivo poco più del ventre e schivo l’amica temibile coda

…‘vi sono grato Bellafrò e voialtre tra buche di bombe e strade sventrate per me solo per me’… e le sento ruminanti

come gatti ruzzare di beatitudine mentre la mia beatitudine odora come fai tu le pagine che sanno di cordite e di muffa

che scherzano mozartiane beffe di Stendhal

e l’Esercizio di  Loyola e il maltradotto Saussure

 

e m’acciambello alla calura brandendo una matita e pulendo incessantemente occhiali rudimentali finché il Monsignore fazioso mi congratula e scoreggia e s’asciuga la fronte

e mi piazza le Confessioni di Agostino gabellandole per sue

ma come posso dirti la vergogna – in quell’altèro godimento – per non saper competere alle gare di sputo più distante

e di lancio dei sassi al maggior numero di sfioramenti saltelli

sull’ansa larga dell’Orcia e così imparare a sorridere storto.

 

Le belle nascite le pagliuzze d’oro i temporali di parole

e il tumultuoso e ordinato scorrere abbattersi carezzevole  nell’alveo amante della comune famigliarità ci fanno

difronte e tra le braccia albero e gemma nel silenzioso stare difronte andare nel libero fatale librarsi – parlo di me

ma non ti porto su me poiché mi abiti e mi  dài la melodia

ben oltre il verso e la strofa tu che di parole fai romanzo e del romanzare fai il caldo e il fresco del corpo

mentre l’oro di perle s’intreccia sarmento notturno bagliore.

 

Schivano buche e crateri piaghe di traccianti arbusti inceneriti rotolanti pattini nuovi saldati ai piccoli pieditutto dopo il ritiro delle bombe e degli elmetti era scritto…

 

*

Finché t’avrò o non t’avrò vista nel vento

di pianura oceano o colle di pietre lucide sonore

Finché t’avrò o non t’avrò vista elettrica

di labbra increspate di capelli e fessure

– chinarti schivare quella indecente signoria di cielo e terra

e finché contro il vento t’avrò o non t’avrò vista

ora porre il capo ora il cuore ora l’uragano

io non dirò o dirò soltanto a me chi sei e non sei

in malinconico abbandono.

Eccomi (ecco me che ti risponde) quando m’avverti

da quella lontananza irriducibile che ruzza

sola come la gatta eppure sola disorientata

alla luna intramontabile nei brividi ardenti ora gelidi

al corpo innominabile. Ma dove sono io forse

nello spazio che fa il balzo del capriolo

o nel mezzosorriso della notte

non visto dalla luna indecisa tra la vita e la morte.

O sono nel contratto precipitare della pietra risacca

dalla sassaia alla forra alla schiuma evanescente al sole

Dove se non in fondo al nero mare scordato dal mito

alle smemorate nereidi asciugate di sale e di saliva

senza le parole che tanto servono ai viandanti

 

Le parole ti ritornano come tornano al sole le ombre

ch’esalano dai blu e dai gialli caldi di terra fecondata

e l’ombra t’oscura come una gelosia armata

irriducibile belva dall’intelletto al ventre in flagrante

competizione col Dio Luna e nemmeno scuoti il capo

verso me che mi pretendo Io e ti fronteggio

Da quale millennio o sputo del tempo il dito che ti indìca

e che s’incurva ha colto la memoria che siamo

prima dell’ordine che s’abbatte sulla vita e sulla morte

e che mi serra di braccia e battiti al caos ultima luce

ultima certezza del benedetto non voler sapermi

autore d’idee e di nominazioni – non mi son fatto figurare

da te per mio volere ma per il riconoscerti e per il canto d’Orfeo modulato nel tuo spartito divino e nel suo cànone

e non mi volterò perché così m’hai scelto e sei tutto

memoria e cosa  – tu senza anagrafe senza patria e cuore.

Tra i gonfi veleni angelici che immàrzano i greti

e i piselli odorosi ch’ora sarmèntano ora s’ergono

secondo il medesimo canto del divino riconosciuto

non oggetto e non soggetto ma il tutto del tutto

che il mondo chiama Niente ora sto nell’ascolto del luogo

e non so altro di te di quanto appare e trascolora

dagli urli sorridenti del sole tra i tremuli pioppi e le bramose

campiture di Osvaldo Licini che accompagnano e scandiscono innominabili corpi d’angeli ribelli e amalasunte

né mi sfiora la storia del colore e dei sapori

se non perché ne sono impastato nel sogno omicida

nell’impossibile disegno di-staccarmi una ad una

per mano d’unghiòli e artigli e diti e scotimenti d’ossa maestre

una ad una le cartilagini che trattengono all’ordine

umano l’essenza  amata del mio-tuo corpo d’amore. 

 

Ma io qui sto distante dall’energia che illumina di sé

nel sé ora immerso ora affiorante col braccio e col respiro

e non ti chiedo dimora né poesia ché mi desti laghi e torrenti

intessuti d’orrore e affannosa fuga – il sopravvivere m’è

vomito dissanguamento e le ombre che proiettano figure

che  consistono del reale…..

 


*SCRITTO POSTATO DALLA REDAZIONE E RICEVUTO DIRETTAMENTE DALL’AUTORE:

http://girolamo.melis.it/