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LA CLESSIDRA di Adriana Scanferla

 

clessidra.JPGSelezionata per pubblicazione antologia VERBA AGRESTIA 2011 ediz. Lieto Colle

 LA CLESSIDRA (di Adriana Scanferla)

Su attonito fondale denso
di declinanti nuvole
più su dei marosi spiccano
piccoli scafi.

Superflui gemiti e prolungate angosce
stipano la barca tana ormai incerta
dal chiarore dei fulmini irradiata
inondata dalla pioggia e scossa al vento.

Ora che trabocca già la notte
il troppo sopportare è disumano
poiché è del male l’attesa inquieta
il peggiore degli affanni.

Libra un gabbiano sopra alla battigia
dove il bimbo frugando nella rena
fantastica castelli inespugnati
che il perenne flusso di marea
spietato distoglie.

Così io volando sull’onda
invento l’istante trascorso
e dai fantasmi assorta trascuro
di rimandare la clessidra al tempo
così che sabbia di vita resta al fondo
racchiusa e inerte sotto vetro.

1 Dicembre 2010


 

THE HOURGLASS (by Adriana Scanferla)

Translate Adriana Scanferla
&
Ute Margaret Saine


On an astonished bottom dense
with declining clouds
small boats stand out above
the waves.

Superfluous moans and prolonged anguish
clutter the boat a now uncertain lair
of light illuminated by lightning
flooded by rain and rocked by the wind.

Now that the night is overflowing
suffering too much is inhumane
because the restless expectation of evil
is the worst of all troubles.

A seagull hovers above the water’s edge
where the child digging in the sand
daydreams unconquerable castles
that the perennial flow of the tide
ruthlessly destroys.

So flying on the waves
I invent the elapsed moment
and absorbed by ghosts I neglect
to reset the hourglass for the time
so that the sand of life stays at the bottom
enclosed and inert under glass.

 

**Versi e Immagine ricevuti direttamente dalla Poetessa.

Giancarlo Fattori in versi e immagine.

«IO SONO LA’»

di Giancarlo Fattori


Io, che non sono più me stesso,

sono là, altro luogo, altra persona,

differente stagno, e limpido ruscello.

Se l’anima è in frantumi

la colla mi diviene sorriso,

spiana gli occhi, e le rughe,

pur se è poco più d’una fiamma,

nel buio.

Niente altro rimane,

e niente ha più importanza.

In questo antro s’è perso

il pensiero mio più caro,

pregno della melanconica scia

d’un fiore estinto:

è il tuo sguardo,

che nel vento si libra,

detergendo il pianto,

come ampia vela che il vento scuote,

nel nostro cielo che fa da strada,

e da fugace turbamento.

Io sono là: basta che osservi

lo scorrere delle notti,

perché sono il luogo, la persona,

lo stagno, e il ruscello che,

nel chiarore di un giardino,

s’impregna di aurora, e di te:

pallida tinta di mani lontane

a indicare il sole nuovo,

l’ultima morente stella,

e l’erba umida, su un lucor di lacrime.


Maggio 2011


*Versi ricevuti direttamente dall’Autore.

**Immagine digitale “La danza della luce” elaborata dallo stesso Autore.

L’IMPEGNO INTELLETTU​ALE DEI BUONTEMPON​I DELLA FELICITA’ -Giovanna Mulas –

154316373-9085c54d-fc4c-4f7f-8c22-b4cc2119915b.jpgCon buona pace del sano berlusconismo e dopo l’arricchimento
intellettuale fornito a suo tempo dal ‘Corso sull’idiozia’ ecco, di rimbalzo tra un quotidiano e l’altro, ciò che tutti noi poveri mortali attendevamo trepidanti da anni, senza avere il coraggio di chiederlo:
l’Università della felicità, in Sardegna.
Simpatici buontemponi miei, incattedrati per la voglia di privatizzare anche la felicità (a 190 Euro, questo il costo d’iscrizione) facciamo un esercizio di memoria, sempre utile agli alunni più ingenui: ricordiamo, a noi e a loro, che
proprio nella nostra isola, durante gli ultimi sette mesi, sono stati
registrati 10 suicidi per mancanza di lavoro e debiti, ché la felicità
ultimamente va via…come l’acqua, per rimanere in tema privatizzazione.
Insegnateci, coraggio: serve procurare ‘felicità’ o consapevolezza,
tra i lettori? Facciamo alcuni nomi dei buontemponi felici costi quel che costi?:
il felicissimuS Vittorio Sgarbi, il felicione Benito Urgu e la
feliciotta Michela Murgia, l’incomprensibile felice -due volte- (sarà
stato il tête-à-tête con Briatore?) Felice Floris, i felici Giorgio
Pisano con Francesco Abate. E altri buontemponi ancora.
Bontà nostra, compagni miei di resistenza intellettuale: abbiamo
sempre avuto il Sacro Graal in casa e non ce ne siamo mai accorti.
Che gran coglioni.

“E adesso siam pronti alla morte?” per ‘Il dialogo’ di Giovanni Sarubbi:
http://www.ildialogo.org/ poesia/IsolaNera_1321368905. htm

*Articolo ricevuto dalla Scrittrice: Giovanna Mulas

SCRITTO di GIROLAMO MELIS, che – lottattando contro i vili – un giorno disse: almeno “gli assassini hanno il delirante coraggio di uccidere.”

 

girolamo melis,scritto,inedito,dinanimismo,milano,scrittore,ferrara“La ruota del 2006” di Girolamo Melis

 

Parlo con me m’interrogo m’incalzo impaziente

Non ho fretta non ho appuntamenti con la morte

se non lo stesso il solito il primo che lei mi fissò

nella sua estate – ho tenuto la parola di non assillare

di chiacchiere il tempo la storia i panorami cambievoli

eppure tu sai ch’io non m’ero  disposto alle voci spezzate

alle ricurve insinuazioni sottovento e ne ho dovute

sprezzantemente respingere di opinioni e  maschere

per non disattendere il semplice e il chiaro dell’ignoto

e non ho mai cercato un riparo nel vuoto

e mi son fatto trovare sempre nelle case scambiate

eppur sempre di pietra e calcina – mai vetrina.

 

M’interessa la vita che sta e va e tutto voglio sapere tranne le date del calendario – ho ascoltato la morte di Dario e non saprei nemmeno dirti se è rimasta impigliata nella vita o s’è avvinghiata all’haiku dell’anno ics o ypsilon lui che misurava

a millenni il giambo e irrideva Starobinski sopra e sotto

di sguincio alle parole e nemmeno s’altezzava al testo

d’una spesa in drogheria contrappuntando sonagli e barbagli siringhe distici elegiaci rapinose carezze letterarie ai culi innominati delle metropolitane rossa e verde.

 

Parlo con me e mi sdoppio senza scindermi nei visi tra i quali so distinguere chi mi distingue e corteggiare chi mi scansa e so stare di pietra e di carezza difronte a quell’unico viso costituito impastato nella creta delle parole nella tuonante leggerezza del sorriso senza scopo se non sorridere

– ci mancava proprio questo clamoroso dialogo dello specchio e il suo rilancio d’orizzonti e di materia

ci mancava sì questo definitivo richiamo del Semplice.

A che devo una cotanta straripante conchiglia di doni?

 

Ora perfino la cronaca dei giorni mi tocca rivivere

ora  febbricitante nell’attimo integro come un seme d’ossidiana ora finalmente disposti in cammino e in posa gli ultimi oggetti storici i petulanti ricordi ora ricostituiti nella  rammemorazione di casa heimat capanna di foglie e ciglia

Ora l’interesse mi fa vento e frescura ora si ritrova ai bordi del parco senza nome eppure tanto e tanto nominato tra il sonno e il risveglio ora ha i contorni della nonna ironica e della sua esorcistica carezza a lavar via il demonio.

 

Siediti accanto a me sulla panchina di Melville e Platone

fai posto e scosta il sorriso di Vittorini e  l’Ammannati che di posto ne tiene poco se non nel cuore e nell’aria

deferenti inchini ma sobri rivolgi al capoccia di Riguardone e no non ti stupire quello è mio Padre nel suo tessere

il telaio manuale in qua la trama e in là l’ordito

che il Figlio  ne sia costituito di mota e diamanti

non vedrai uscire nemmeno un piccolo ricordo né  vago né miliare ma tutto intero per te sarà l’interrogare.

 

E allora chiedimi non mi sorprenderai neanche tacendo

Il tuo silenzio sarà mia parola tu che non sai nascondere

difronte a me che non avevo fronte che per la morte

amica prima come ora come ora che m’hai rialzato il viso

ai respiri verdi e rossi e blu della terra e delle cose

Non ho fretta né alle domande né  al silenzio

Il tuo corpo m’è diventato amico come m’era bambino

L’indistinto da distinguere mondo in paesaggio e buio

Sono qui e prima di parlare ti bacerò le palpebre.

 

Al mio paese anche le chiese erano fazioni e gli uomini

che le reggevano vavassori di Dio non pastori

ché nessuno stava con alcuno né con la fede né

con la pietà – era questione di ruolo nella Lingua Italiana

Nemmeno le famiglie erano tribù ma parti del discorso

Il Padre mi dava del lei vivendo in me l’avvento

del Linguaggio del lignaggio e la malinconia m’irrigidiva

nei libri al centro dei giorni e delle notti – l’eros ordinava

gironi e movimenti sovrani silenzi cenni e segni.

 

Tu c’eri allora tra il demonio e il poeta tra voli spezzati

Delle starne delle lente camminate dei vecchi arguti impolverati da chiesa a chiesa tra orologi impettiti

E codici d’onore e l’ironia che razzava sussiegose brache

E niente mi si taceva né si poteva celare come ora che tu

Mi taci e mi sveli nella furia d’amore indicibile ma detto

Agli angoli delle strade nelle stanze nelle trappole tese eppure lente come la lettura dei giorni somiglianti

Da un secolo all’altro dal mondo antico a quest’istante.

 

Parlo con me e le domande sono tue dalla collina

Azzurra dalle crepe di vulcano e d’olivo dalla signoria della parola furiosa d’Ariosto dallo stupore neotecnico della radio dalla somiglianza affinità famigliare dallo scambio

Di religioni e paure – e parlo con me che mi guardi fino

Al fondo della ragione e non vedi altro che tutto il rossore

Il pallore dell’educazione al profondo della grammatica e della fonè dell’interpretazione sconfinata dietro lo sguardo dietro gli occhi chini le dita contorte gli assensi severi.

 

Vedi quello che non saprei mostrarti e che trattengo

Eppure non chiudo alle carezze – perciò parlo con me

Perché tu colga ogni aperto segreto e ne spacco il cemento

La saracinesca squartata dalla storia gli schermi dal viso

Scivolati come pioggia lacrime parole perdute balbettii – anzi mi vesto m’adorno delle tue mani messaggere

del diventare il linguaggio che mi offri in coppa e cesti tesori e primizie ad ogni rammemorazione che m’esplode dal petto ad ogni stretta di labbra di pugno di paesaggio.

Voglio parlarmi e dirti dei fulmini da casa a casa riflessi negli occhi appena coperti dalle tese larghe dei capoccia di sotto in su per non ammetterne la maestà la potenza l’intelligenza naturale di viandanti a mani serrate i fulmini alleati della mia infanzia coi loro servitori i tuoni goffi baritoni dei melodrammi valdorciani non umiliati eppure striscianti a cercare una valle amica, una mangiatoia

E voglio parlarmi del tacchino e del locio i maschi incontinenti nei cortili a rincorrere la tacchina e l’oca

 

E dirti che ho ancora rossore delle burle e gli sberleffi

che mi facevo di loro lanciandogli in faccia virtuose chicchirullàie per dirgli che mi sarebbero mancati e li volevo possedere un po’ come cani e un po’ come gatti impossedibili

e come i fulmini e poi li pregavo di avvicinarmi sfiorare

le mie carezze e tenere di me l’afrore della corsa e della furia tenermi  tra di loro con loro cortile nel cortile finché

mi ricordassero in lettura accasciato sul tavolo delle forme di formaggio pecorino col grande vecchio mèmore

 

e dirsi – e dirmi e dirti – del movimento degli Angeli e dei Troni e dell’abissale distanza di Dio nel verso della Commedia che lì imparavo nello stare e nell’andare del Verbo senese delle sillabe numerose delle vocali asciutte come l’olmo e la quercia nel canone di Pergolesi affidato a voci pure invirtuose e rudi ma non grezze come il vento del Monte Poliziano e dell’Amiata che mi bombarda ancora d’una tormenta di castagne e di more nei crepuscoli azzurri

nelle gerarchie di fazione nell’intolleranza della quiete.

 

Voglio parlarmi di quanto mi mancavi or è un secolo tu

con la tua barbarie dialettale che si fa lingua nella lettura

del mio ineffabile dire e mi rovescia l’abito della forma

quell’abito che fu per decenni di storia misura del sentire il sapere di terra canòpi tombe e litugie silenziose a Cervèteri a Chiusi negli sparuti avelli delle teche e vetrinette che risucchiano e fanno altra l’alterigia di Porsenna Re Vetusto

di niente signore d’oggetti e vasellame e ori e cianfrusaglie

se non del rango impolverato poi di mercantile latinità.

 

Che ci possiamo dire fuori dai nostri corpi armoniosamente distanti? Possiamo tradurre lingua in dialetto, occitano in vetero-senese? La fine della lontananza uccide oh non il soggetto ma l’essere e cosa se non l’essere ci parla di noi nella sola irripetibile voce superflua al di là del bene e del male del tempo e della storia e come mai potremmo stare agganciati a questo chiodo tremante che la petra trattiene e incassa e gioca e vèllica e convince affinché resti preda dl fatale tramonto nel suo colore d’alba senza voli.

 

Sommerso di libri sudati al mercato nero tra bombe e schegge e fucilate traccianti e scaricati dal carro sparigliato

Le fide bestie candide e scarne ferrate con perizia carezzo e arrivo poco più del ventre e schivo l’amica temibile coda

…‘vi sono grato Bellafrò e voialtre tra buche di bombe e strade sventrate per me solo per me’… e le sento ruminanti

come gatti ruzzare di beatitudine mentre la mia beatitudine odora come fai tu le pagine che sanno di cordite e di muffa

che scherzano mozartiane beffe di Stendhal

e l’Esercizio di  Loyola e il maltradotto Saussure

 

e m’acciambello alla calura brandendo una matita e pulendo incessantemente occhiali rudimentali finché il Monsignore fazioso mi congratula e scoreggia e s’asciuga la fronte

e mi piazza le Confessioni di Agostino gabellandole per sue

ma come posso dirti la vergogna – in quell’altèro godimento – per non saper competere alle gare di sputo più distante

e di lancio dei sassi al maggior numero di sfioramenti saltelli

sull’ansa larga dell’Orcia e così imparare a sorridere storto.

 

Le belle nascite le pagliuzze d’oro i temporali di parole

e il tumultuoso e ordinato scorrere abbattersi carezzevole  nell’alveo amante della comune famigliarità ci fanno

difronte e tra le braccia albero e gemma nel silenzioso stare difronte andare nel libero fatale librarsi – parlo di me

ma non ti porto su me poiché mi abiti e mi  dài la melodia

ben oltre il verso e la strofa tu che di parole fai romanzo e del romanzare fai il caldo e il fresco del corpo

mentre l’oro di perle s’intreccia sarmento notturno bagliore.

 

Schivano buche e crateri piaghe di traccianti arbusti inceneriti rotolanti pattini nuovi saldati ai piccoli pieditutto dopo il ritiro delle bombe e degli elmetti era scritto…

 

*

Finché t’avrò o non t’avrò vista nel vento

di pianura oceano o colle di pietre lucide sonore

Finché t’avrò o non t’avrò vista elettrica

di labbra increspate di capelli e fessure

– chinarti schivare quella indecente signoria di cielo e terra

e finché contro il vento t’avrò o non t’avrò vista

ora porre il capo ora il cuore ora l’uragano

io non dirò o dirò soltanto a me chi sei e non sei

in malinconico abbandono.

Eccomi (ecco me che ti risponde) quando m’avverti

da quella lontananza irriducibile che ruzza

sola come la gatta eppure sola disorientata

alla luna intramontabile nei brividi ardenti ora gelidi

al corpo innominabile. Ma dove sono io forse

nello spazio che fa il balzo del capriolo

o nel mezzosorriso della notte

non visto dalla luna indecisa tra la vita e la morte.

O sono nel contratto precipitare della pietra risacca

dalla sassaia alla forra alla schiuma evanescente al sole

Dove se non in fondo al nero mare scordato dal mito

alle smemorate nereidi asciugate di sale e di saliva

senza le parole che tanto servono ai viandanti

 

Le parole ti ritornano come tornano al sole le ombre

ch’esalano dai blu e dai gialli caldi di terra fecondata

e l’ombra t’oscura come una gelosia armata

irriducibile belva dall’intelletto al ventre in flagrante

competizione col Dio Luna e nemmeno scuoti il capo

verso me che mi pretendo Io e ti fronteggio

Da quale millennio o sputo del tempo il dito che ti indìca

e che s’incurva ha colto la memoria che siamo

prima dell’ordine che s’abbatte sulla vita e sulla morte

e che mi serra di braccia e battiti al caos ultima luce

ultima certezza del benedetto non voler sapermi

autore d’idee e di nominazioni – non mi son fatto figurare

da te per mio volere ma per il riconoscerti e per il canto d’Orfeo modulato nel tuo spartito divino e nel suo cànone

e non mi volterò perché così m’hai scelto e sei tutto

memoria e cosa  – tu senza anagrafe senza patria e cuore.

Tra i gonfi veleni angelici che immàrzano i greti

e i piselli odorosi ch’ora sarmèntano ora s’ergono

secondo il medesimo canto del divino riconosciuto

non oggetto e non soggetto ma il tutto del tutto

che il mondo chiama Niente ora sto nell’ascolto del luogo

e non so altro di te di quanto appare e trascolora

dagli urli sorridenti del sole tra i tremuli pioppi e le bramose

campiture di Osvaldo Licini che accompagnano e scandiscono innominabili corpi d’angeli ribelli e amalasunte

né mi sfiora la storia del colore e dei sapori

se non perché ne sono impastato nel sogno omicida

nell’impossibile disegno di-staccarmi una ad una

per mano d’unghiòli e artigli e diti e scotimenti d’ossa maestre

una ad una le cartilagini che trattengono all’ordine

umano l’essenza  amata del mio-tuo corpo d’amore. 

 

Ma io qui sto distante dall’energia che illumina di sé

nel sé ora immerso ora affiorante col braccio e col respiro

e non ti chiedo dimora né poesia ché mi desti laghi e torrenti

intessuti d’orrore e affannosa fuga – il sopravvivere m’è

vomito dissanguamento e le ombre che proiettano figure

che  consistono del reale…..

 


*SCRITTO POSTATO DALLA REDAZIONE E RICEVUTO DIRETTAMENTE DALL’AUTORE:

http://girolamo.melis.it/


 

 

VERSI DI ANTONIO VANNI

antonio vanni,versi,poesia,dinanimismo,isernia,ferrara,genesi edizioniIL TRAMONTO (dedicata a Luciano)

tratta dalla raccolta edita DIARIO DI UNA NUVOLA BASSA,edizioni EVA, Venafro(IS), 1994.

Doveva esserci dell’aria
nel globo marmoreo ove tu posasti
le tue felicità e stanchezze un solo istante
sdraiato ai seni necessari dell’alba,
se ora al mio respiro esso sfugge al cielo
ed io sì forte non mi conoscevo
da librarti in aria amore mio.
Questo è il silenzio dei tetti rosa all’agghiaccio
ch’io ascolto, il freddo che chi ama sa riconoscere,
il freddo della chiesetta chiara al docile vagabondare
dei suoi angeli, i chierichetti,
come onde le sfuggenti campanelle
e si disperano.
Gesù è un gioco bello, di coccinelle,
e dura poco.

Oh quanta sete in quest’esodo di fuoco!
Un uomo solo dai mille cappelli io resto,
dinanzi i vetri lucidi dei tuoi occhi,
un palco di colori per la recita.
Un uomo elegante col fascino della sabbia che brucia
sulle labbra e ti segna con la mano
uno ciao marino.
Doveva esserci dell’aria nel mio cuore ed una nuvola
se confido nel volo di un’ala,da sola,
un pò grottesca a vedersi
col corpo nello sguardo della sera disperso.
E sei solo amore
giù con le corde delle bambine
non appena tutto è diverso da te.

Crescono nel cortile gli scolari.
Ai loro doni di china sul viso
tu poni resina di mirto tra i capelli,
che m’invento un cigno,il tramonto,
se è vero ch’esso è vicino a Dio, il suo canto,
e tagli il vento coi vestiti nuovi
e cammini.
Poi attraversa il campo un bel veliero giallo,
un ritornello così, quasi un fratello.
Farai tardi a scuola
(col Miracolo di Heliane che hai udito,tossendo)
la tua cartella è di gioia
(Korngold,correndo,Il bravo sartino tredicenne)
coi quaderni a quadretti sul globo marmoreo
dimenticati,sì,dimenticati
com’esuli graffiti ai sassi rovesciati.
Io me ne andrei via felice
ultima estate da bambino,
diario di una nuvola bassa.

(Antonio Vanni)

ANTONIO VANNI È nato ad Isernia (Molise) il 16-12-65. Diplomato Ragioniere ed Infermiere Professionale, è laureando in Psicologia. Secondo di 5 fratelli, inizia a comporre versi all’età di 12 anni, divenendo a 18 anni, con la prima raccolta edita La Nube membro onorario dell’Accademia di Scienze Umanistiche del Brasile. È autore di racconti brevi, ancora inediti.
Nel 1995 il giornalista Fulvio Castellani pubblica una monografia sull’opera di Antonio Vanni. Opere pubblicate: La Nube, 1984; Alcadi, 1986; Viale dei Persi, 1987; L’albero senza rami e la luna, 1992, presso la Genesi Editrice, con prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti; diario di una Nuvola Bassa, 1994; L’Ariel, 1997.
Profilo critico: “È, Antonio Vanni poeta (e prosatore) lirico, contemplativo, descrittivo, estatico evocatore di paesaggi primaverili di boschi, radure, fiori gentili, di spiagge felici, di acque limpide, di loci amaeni entro cui si ambientano lievi vicende di sensuali malizie infantili, quasi sognanti sequenze di gesti affettuosi e ridenti, in un’atmosfera di età dell’oro, prima di ogni velo e di ogni consapevolezza di peccato e di divieto.” (Giorgio Bárberi Squarotti)

*VERSI: Ricevuti direttamente dall’Autore.

**BIOGRAFIA: tratta da  http://www.genesi.org/autore~id_autore~327.htm dietro indicazione dello stesso Autore.

 

 

     
 

POESIA INEDITA DI ZAIRO FERRANTE – VOCE DI ELIANA FARINON

BUONGIORNO DA ZAÌRO FERRANTE: Una consegna pesante… oppure una semina nel campo altrui?

 

 

 

IL TEMPO ( inedito)

Scorre il tempo
tra curve spigolose
inutilmente arrotondate
da ricordi trafugati.
Quasi rimbalza
dai tappeti della memoria
come storia immortalata
nell’inutile pagina
di un tentato vivere.
Eppur si muove.
– Il tempo –
Come cane bastonato
a mugolare tra le spine.
Uniche rose di un giardino
abbandonato.
E chiede il conto.
– Questo tempo –
Quando, al bancone,
tu consumi e perdi
la tua faccia
nel mascherare il tuo passato.
E nel prendere gli ultimi
tuoi spicci, il barista,

da sfacciato –
ti rammenta quel che eri.
E sorride mentre
tu l’aspetti al tuo autogrill.
Ultima fermata sgangherata
come oasi che ti allontana
dalla morte.
– E’ stupida illusione –
Tanto è tempo: che ti serve,
vola e ti sorpassa.
In quest’autostrada
che rallenta il tuo cammino
e che è la vita.
 
 
Zairo Ferrante, 8 – Ottobre – 2011
 
**Versi tratti dal sito:

http://girolamo.melis.it/2011/10/buongiorno-da-zairo-ferrante-una.html

” E scorrono i poeti “: Voce di Eliana Farinon (Lazzarino) – Poesia di Zairo Ferrante

– ELIANA FARINON

Curriculum:
Dizione e recitazione con Renato Stanisci a Vicenza, seminario con Maurizio Scaparro, teatro amatoriale, presentazione eventi. Vicentina, dieci anni a Torino, uno a Roma, abito a Milano.

Lavori realizzati:
Telecomunicati nazionali: Spot Elnapress per Retequattro. Radiocomunicati: Centinaia, solo regionali. Due spot per Kijiji – dicembre 2010 – diffusi in quattro regioni (Lazio,Marche,Emilia Romagna,Umbria). Insegno dizione a operatori della comunicazione. Figurazioni speciali e qualche battuta in tv, fiction e cinema. Comparsa nel film di Aldo, Giovanni e Giacomo (La banda dei babbi natale), in “Così fan tutte” sitcom in onda su Italia 1. Contendente a “Forum”.

Collaborazioni:
Conduzione radiofonica mattutina con intrattenimento, rubriche e redazione notiziari. Quattro ore quotidiane, cinque giorni la settimana, durante dieci anni; in diretta con o senza ospiti, presso emittente privata di Castelfranco Veneto.

Caratteri:
Si. Dialetto: Veneto

Note:
Voice over in documentari commerciali, biografici o storico – naturalistici. Canto!

 

Per chi volesse conoscere meglio Eliana e la sua VOCE:

 

http://www.trovalavoce.it/ita/88-farinoneliana.html

 

– ZAIRO FERRANTE E IL SUO LIBRO “I bisbigli di un’anima muta ” :

http://www.autoriitaliani.it/autoriaffiliati/zairoferrante/

Versi e Arte di Giancarlo Fattori

LA DANZA DELLA LUCE 7.jpg«UN UOMO SONO IO, SU QUESTI SENTIERI»

Un uomo sono io, su questi sentieri
dove visioni di stupore antico
negli occhi si specchiano, come cristalli
sbreccati dal tempo.

E i profumi, sulla floreale pelle
che dalla brezza viene accarezzata,
s’insidiano in pace e rumore,
e, dallo stupore, rimango senza fiato.

Creatura di sabbia sono io, di splendore
e granuli bagnati, che la pioggia, suadente,
piange da ogni nube, nel cielo appesa,
soltanto una luna arcana, una sanguinante anima.

Non vi è altro per me che un sole rosso,
la luce nuova che riflette sulla strada,
e ogni suono avanza, di pietra in pietra,
scavando con le mani, con il cuore.

E l’uomo che io sono rimane nello scrigno
che ogni sogno cela, con i relitti della vita lasciata,
liberando il sangue che di nuovo si scolora
nel luccicar della stella che imbianca il mio vespro.

Giancarlo Fattori, Maggio 2011

*Versi e Dipinto Digitale ( La danza della luce ): ricevuti direttamente dall’Autore

Francesca Barbi Marinetti e la corsa del Futurismo verso il suo futuro!

page.jpgOgni passato genera il proprio futuro e, volendo capovolgere questa banale equazione, si può dire che: non esiste futuro che non abbia un proprio passato da raccontare.

Ecco perché, di seguito, vi regalo una “lettera” ricevuta proprio questa mattina dalla Dott.ssa Francesca Barbi ( Nipote del Maestro Filippo Tommaso Marinetti).

Il testo, scritto in occasione  dell’evento “ *Corsa Futurista 2010 ” , ci dona  un’occasione unica per riflettere sul ruolo che l’Artista, anche oggi, dovrebbe ricoprire.

Auspicando, in pieno stile dinanimista, una “ribellione” dal giogo “dell’intellettualismo” e della “casta”,  a favore di un’arte propulsiva e propositiva costruita in nome degli Uomini.

Zairo Ferrante

Nota: l’evento ” La corsa Futurista 2011 ” si terrà il 24 settembre p.v. , per maggiori informazioni accedere al sito ufficiale della manifestazione tramite il link che trovate alla fine di questo articolo.

 

«Nella carne dell’uomo dormono delle ali»

Lettera/Presentazione di Francesca Barbi

 

Un secolo fa ad infervorare ‘l’immaginazione senza fili’ di mio nonno F.T. Marinetti fu una cosmogonia visionaria legata al mito della Velocità. Un mondo imbrigliato da reti che permetteva l’immediatezza della comunicazione, lo sfrecciare di un esercito di supporti meccanici addomesticati che come nuove protesi modificavano in terra e in cielo il rapporto con lo Spazio ed il Tempo, permettevano di abbracciare le distanze terrestri in un amplesso dal ritmo rigeneratore. È l’annuncio della conquista di una identità e di uno spirito con cui l’uomo abiterà il mondo rifecondati dalla nuova tecnologia.

E allora correre – «correre correre correre volare volare» -, sfidare senza freni la barriera cronometrica, si impone per Marinetti come una preghiera laica essendo quella della Velocità la nuova religione-morale. Ed è così che intitola il suo manifesto pubblicato nel 1916.

Contro la lentezza melliflua e passatista tardo ottocentesca, il sentimentalismo retrogrado e impantanato di futili mollezze del pensiero, si preannuncia l’avvento di una umanità reattiva e votata alla bellezza della modernità sulla soglia della rivoluzione tecnologica.

«Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali», scrive ne L’uomo moltiplicato e il Regno della macchina. Se la tecnologia sostiene la ‘nuova religione-morale della velocità’ porsi nelle condizioni fisiche e mentali di accogliere e assecondare questa inevitabile trasformazione diventa un must, a fronte di un vitalismo artificiale e ottimistico che rivoluzioni il rapporto con la vita in tutti i suoi aspetti.

«Gli sportsmen – scriveva – sono i primi catecumeni di questa religione».

La Corsa Futurista non solo prende spunto dall’attinenza che il tema ebbe per il movimento, ma ha una ragion d’essere ben radicata e riscontrabile nella documentazione storica. È noto quanto il futurismo auspicasse una rivoluzione del modus vivendi a 360° sempre imperniata sull’inscindibile equazione Arte-Vita. E attento quale era ai diversi ambiti del sociale e del costume, Marinetti più volte si esprime in merito allo Sport, non limitandosi alla suggestione esemplificativa del concetto perno ‘movimento-azione’.

In più occasioni egli auspica l’inserimento nelle discipline scolastiche di ‘corsi di coraggio fisico e patriottismo’. Il muscolo allenato all’azione predispone alla elasticità creativa, così che nella sua logica di Arte-Azione vi è Azione = Arte. Creatività che si affianca sempre ad un altro ideale per lui imprescindibile, che è quello di italianità, di fierezza dell’Amor patrio : «Mediante le scuole di coraggio che noi propugnamo, vogliamo aumentare questo vigore del sangue italiano, predisponendolo a tutte le audacie e a una sempre maggiore capacità artistica di creare, inventare e godere spiritualmente», leggiamo in Al di là del comunismo. E in Democrazia futurista «Ma noi artisti non siamo i così detti intellettuali. Siamo soprattutto dei cuori palpitanti, dei fasci di nervi in vibrazione, degli istintivi, degli esseri governati solo dalla divina, ubbriacante intuizione, e crediamo di essere, o siamo, tutti accesi del così detto fuoco sacro».

La competizione, elemento connaturato all’evoluzione della specie e alla conquista delle stelle, è la chiave per sviluppare un’intelligenza coraggiosa. Al quesito amletico Marinetti risponde senza pavide sfumature : «superare, superarsi o non essere»!

L’accettazione positiva della modernità implica necessariamente il superamento del sentimentalismo angoscioso e ossessivo, l’abbattimento delle paure nei confronti dell’ignoto. E la Corsa rappresenta lo sforzo primario e istintivo dell’uomo di competere per il raggiungimento di una meta. È metafora di intuizione, di slancio vitale ed energia primordiale. È l’affermazione della individualità e dell’originalità, nonché il superamento della moltitudine grigia e indistinta che rappresenta la contropartita negativa della società massificata.

La Corsa Futurista risponde all’appello marinettiano di resistere all’affossamento dell’io in una folla livellata. È lo sforzo positivo e competitivo di emancipazione da uomini senza volto in individui che insieme affermano il controllo sulle proprie esistenze diventando una ‘moltiplicazione di individualità originali’. È l’affermazione energica di voler appartenere ad una folla inegualista. È la prefigurazione di una rivoluzione che esalti le differenze all’insegna dell’assunto per cui «democrazia significa qualità e non quantità».

Un secolo fa… mio nonno… non è che pecchiamo per caso di passatismo? si perché – in fondo in fondo – ogni qualvolta si omaggia quest’avanguardia vecchia di un secolo, e che faceva a cazzotti con il passato, ci si pone un dilemma di contraddizione. La contraddizione risiede nell’impossibilità di farne una ricostruzione filologica senza sentirsi scivolare dalla parte del ‘nemico passatismo’. Nel rispetto della visione marinettiana occorre che questa sia sempre rinverdita di senso contemporaneo, farle spiccare il volo con le ali del suo sogno ma attraverso la percezione allargata sui confini sconfinati del pensiero creativo. Per non farle perdere quota, far prendere all’ala il vento.

Nel 1928 in seguito ad un viaggio a Madrid dove partecipò ad una partita di ‘golf reale’, con sottile ironia ne fa il resoconto tratteggiando un manifesto che verrà poi pubblicato sulla «Gazzetta del Popolo». I punti programmatici prevedono simultaneità tra le varie discipline sportive – con trovate esilaranti, come nel ‘Tiro al golf’ dove stabilisce che spettatori e spettatrici armati di fucili tenteranno di colpire la palla bianca nel suo volo – innervate da momenti di pura ispirazione artistica.

Arte e attività fisica si sposano costantemente: «Occorre arricchire lo Sport di simultaneità. Perciò propongo i seguenti giochi sportivi simultanei, che si possono dividere in doppi giuochi sportivi fisici ed in giuochi di muscolo e pensiero artistico». È qui che Marinetti propone una «Corsa a piedi con declamazioni di versi».

Non credo che Ferdy Colloca,  per quanto attento conoscitore di sport e appassionato di futurismo, avesse presente questo proclama marinettiano quando sognò di realizzare la sua corsa futurista. Indice che le idee hanno una loro forza, viaggiano per conto loro, affondano e riemergono nel tempo, fanno incontrare persone, chiarire i legami con la storia.

 

 

Francesca Barbi

 

*Nella Foto elaborata dalla Redazione: Francesca Barbi e suo Nonno F. T. Marinetti.

**Per maggiori informazioni sull’evento “ Corsa Futurista 2011 “:

http://www.corsafuturista.com/cfr11/