GIOVANNA MULAS E LA SUA ANIMA

 

IL “DINANIMISMO” CON E PER GIOVANNA MULAS

Non a caso, e finalmente, candidata italiana al Nobel per la letteratura. Lughe De Chelu (e Jenna de bentu) e’ il libro della maturita’ stilistica raggiunta, della luce personale scoperta, o forse solo ritrovata nella Sardegna Madre.
(H. Maensfield)

Introduzione di Zairo Ferrante

mulas2.jpgCon queste poche parole intendo omaggiare una scrittrice di fama internazionale sottolineando una collaborazione, per adesso on-line ma comunque viva e felice, tra il dinanimismo e l’immensa Giovanna Mulas “Scrittrice, poetessa, giornalista, pittrice.
Ventidue libri pubblicati ad oggi tra sillogi poesia, romanzi, saggistica. Presente in centinaia di antologie internazionali con racconti e poesie.
Pluriaccademica al merito, 58 primi premi letterari internazionali vinti, tradotta in 5 lingue, più volte nomination all’Accademia di Svezia per la letteratura per l’Italia.
Membro onorario della GSA, Giornalisti Specializzati Associati di Milano, dirige le riviste di letteratura Isola Nera (in lingua italiana) e Isola Niedda (in lingua sarda), diffuse nel mondo. Dal format originale in lingua spagnola Isla Negra, fondato dal marito Gabriel Impaglione, poeta e giornalista argentino.”

Omaggio dovuto non solo alla sua attività di scrittrice, ma anche al suo grande impegno sociale che vivo emerge nelle sue opere. Insomma un’artista completa, che non solo immortala la società nelle pagine come un grande pittore farebbe con una tela, ma che si eleva anche a Maestra di Anime, donandoci parole ed immagini che non possono non farci riflettere sulla società e le sue, spesso inadeguate, regole.

Ecco che vi presento, con la viva speranza che nessuno di voi si senta mai come un insetto che si nutre di quello che la società ed i loro padroni vomitano, degli estratti che la Scrittrice  – raggiunta da una mia e-mail e con la gentilezza propria dei grandi – mi ha donato:

Ti allego come da accordo in file Word estratti brevi di mie opere….E’ il mio simbolo di adesione e sostegno da artista al Vs giovane coraggio, alla forza che contraddistingue il Movimento...”



ULTIMA FERMATA


(estratto da Caronte, romanzo, 2009 di Giovanna Mulas)




Un lungo tunnel, poi il pulmann si fermò.

L’autista contemplò Luigi con una punta di disprezzo, Luigi fissò l’autista.

Siamo arrivati, ragazzo.

Dove?

Era una buona domanda ma non di quelle su cui, evidentemente, Capitan Findus riteneva di dover ponderare a lungo. Protese il braccio con il palmo aperto e le dita ripiegate, verso Luigi.

Seguimi.

L’ autista scese dal mezzo e Luigi lo seguì come un cagnolino fedele, senza fare domande.

Si trovavano al centro di una landa che s’ estendeva infinita, ostica, diritta, mai spezzata da strade o monti o colline. Luigi la disegnò così sul suo quaderno degli schizzi:

fosse stato possibile guardarla dall’ alto, da un elicottero ad esempio,

sarebbe apparsa al visitatore come la faccia di un enorme

pagliaccio ghignante. Attorno corva era, di terriccio

granuloso e secco, arido e pietroso, avvolta dai fumi e le nebbie

grigio scuro e così pure si stanziava, ancora inesauribile, il cielo sopra quella, nero di carbone ardente dove neppure stella scorgevi, né osavi sperarla ché condannarla all’ immenso perso significava desiderarla; solo vuoto, vacuo immenso di dimenticanza e dolore. Vari fuochi nascevano sprizzando scintille, prepotenti, a fontana, non so dirvi quanti, grandi e piccoli sparpagliati lungo la piana sterile in quell’ aria che di morte odorava, e irrespirabile putrescenza; ad ogni direzione, e il passo difficoltoso di trappola si faceva. Cominciava a diffondersi nell’ aria una luminescenza fioca e innaturale.

Seduto su di una roccia, un uomo ( snello, occhialuto, capelli castano chiaro coi colpi di sole e occhiali con la montatura di tartaruga, ben vestito: papillon e completo giacca e pantalone grigio, certamente di marca) stava curvo in avanti, a vomitare qualcosa che, da quella distanza, Luigi non riusciva a capire cosa fosse.

In ogni caso, ai suoi piedi, andavano e venivano migliaia e migliaia di piccolissimi insetti somiglianti, nell’aspetto e goffo movimento, agli scarafaggi, che raccoglievano come preziosa la sostanza rimessa. Alcuni la mangiavano sul posto, altri la trasportavano lontano e lunga, lunga era la fila di questi insetti che, alla pari di formiche, procedevano uno appresso all’altro, lentamente, e se qualcuno usciva dalla fila, subito un altro pareva richiamarlo all’ ordine uscendo anch’esso, raggiungendolo e, di zampe e d’antenne, riconducendolo al suo destino. L’ uomo alzava la testa al cielo come in cerca d’ispirazione, sgranava gli occhi, si dava una pulita alle lenti degli occhiali. Quindi eccolo ancora a rovesciare in avanti il suo vomito.

Solo passandogli davanti con l’autista ad aprire il cammino, Luigi s’accorse che l’ occhialuto vomitava nozioni varie di politica, filosofia, psicologia, astrologia, dattilografia, storia dell’arte e fisica quantica, tuttologia. Gli insetti le trasportavano in una tana -mezzo miglio avanti la trovarono- e le riunivano, tali e quali l’ occhialuto le aveva sputate. E si cibavano di esse, tali e quali l’ occhialuto le aveva sputate.

Chi non resisteva le divorava subito, per averle dentro e magari, dopo, parlarne con gli altri insetti, riportando tale e quale il significato dato dall’ occhialuto. Nulla di più e nulla di meno. Non un pensiero in più né un pensiero in meno.

-Vedete anche voi?- domandò Luigi in sproloquio, con crescente senso di soggezione. Lo chiese ai suoi compagni immaginari e tutti, a suo vedere, gli risposero: Mrs Scholl con cenno della testa, Pedro solo con gesto di mano, Agostino con un mezzo sorriso: hai visto che roba?. L’ avresti mai immaginata una cosa così? E va bene che siamo ( dove siamo?) all’ inferno però… . Per un attimo gli parve di aver affondato i denti in un limone. Porto’ la lingua sopra il labbro, stringendo a sé la statua. I piedi cominciavano a trovare cumuli di detriti, il camminare costituiva minaccia continua per le caviglie. Il flusso dell’acqua putrida, lì, era interrotto da secche affioranti, rigurgiti di terra, da isolotti di melma, pietre con circonferenze di oltre una trentina di metri. Più avanti c’era qualcosa che emergeva dal fango come la prua di una nave. Luigi riconobbe due scaffali stipati di best seller e capolavori della letteratura mondiale (almeno così recitava la targhetta ossidata sui ripiani) da autori e titoli da dimenticare.

E romanzi condensati del Reader’S Digest, festonati di ragnatela. In una piccola grotta –anfratto di roccia in realtà- spiccava, dal numero zero all’ infinito pensare, dal colore rosa al bianco puro del camice medico, un’ intera collana di libri d’amore appesa al soffitto dell’antro con ganci ferrosi, alternata a vecchi numeri di Playboy o Vorrei che tu mi toccassi proprio Lì. Sotto stava una pozza di lava ardente e i poveri condannati (certamente Poetucoli del Nulla e di numero imprecisato: comunque troppi), affondati in questa fino alla radice dei capelli, s’incaponivano cercando di acchiappare libri o riviste per trascorrere meglio l’ infinito tempo.

E le teste della pseudo intellighenzia spuntavano come uova marce dal pozzo di lava, s’alzavano e abbassavano incerte, prepotenti, à la coque, superbe e vuote. In lontananza il rumore diveniva più intenso. Gli occhi di Luigi erano dilatati, enormi occhi spalancati e privi di ragione.




SONO TRA NOI


( estratto da Mandinga, romanzo di Giovanna Mulas)




Quando Giacomo richiuse la porta alle sue spalle, don Milazzo sospirò, socchiuse gli occhi, baciò il rosario una, due volte.

Riavvolse la pergamena, richiuse lo scrigno. Adagiò l’oggetto dov’era sempre stato, nel doppio fondo del primo cassetto di tre d’una vecchia, insospettabile credenza.

Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi. Solo, non sapeva quando e con chi.

Seppure in preda ad enorme turbamento, l’anima l’avvisava lieta del riconoscere in Giacomo, nel SUO Giacomo, l’uomo scelto.

Sarebbe riuscito ad affrontare TUTTO ciò che l’aspettava? Le sue paure, l’impotenza e…e.

Si sentì straordinariamente fiacco, esausto.

Il mio compito è finito, pensò.

Raggiunse l’inginocchiatoio, posto ad angolo tra la porta e la piccola finestra sulla parete, appena sotto il grande crocifisso appeso da dove il Cristo lo guardava compassionevole e addolorato.

Gloriosissimo Principe delle Celesti Milizie, Arcangelo San Michele, difendici nella battaglia contro le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia…’, prese a recitare.

‘…Vieni in aiuto degli uomini creati da Dio a sua immagine e somiglianza e riscattati a gran prezzo dalla tirannia del demonio…’

Uno scricchiolio.

‘… Tu sei venerato dalla Chiesa quale suo custode e patrono ed a te il Signore ha

affidato le anime che un giorno occuperanno le sedi

celesti…’

Non l’aveva detto a Giacomo ma la notte precedente anche Francesco aveva fatto un sogno strano, di mare e di morte.

Un altro scricchiolio.




La crepa tagliò in due la parete. Le mura grinzirono ed espansero a fisarmonica, rivoli d’acqua putrida colarono tra gli anfratti nuovi. La crepa s’allargò come una bocca spalancata.

Francesco sbiancò ma non si mosse dall’inginocchiatoio.

‘… PREGA, DUNQUE, IL DIO DELLA PACE A TENERE

SCHIACCIATO SATANA SOTTO I NOSTRI PIEDI,

affinché non possa continuare a tenere schiavi gli uomini e danneggiare la Chiesa. Presenta all’Altissimo con le tue le nostre preghiere, perchè discendano presto su di noi le Sue divine misericordie e tu possa incatenare il dragone, il serpente antico, Satana, ed incatenato ricacciarlo negli abissi, donde non possa più sedurre le anime.

Amen.’

la parete di fronte esplose in uno schiocco come di sparo, fango gelido e mattoni caddero ai piedi di don Milazzo.

Il prete ululò alla convulsione improvvisa della terra sotto, cadde all’indietro e la voragine gli si spalancò davanti. Dalla crepa zampillarono sangue e lapidi, schizzarono fuori più forte e le lapidi rovesciarono una ad una, cadendo come birilli e indietro e di lato, ergendosi sbilenchi e scoprendo radici come denti neri –VADE RETRO SATANA! IPSA VENENA BIBAS!-, gridò Francesco, facendosi scudo col rosario.

Sono arrivati sono qui i demoni sono tra noi…

Ed ecco che il grande crocifisso sulla parete prese a muoversi, a tentennare. Fu un boato; don Milazzo vide saltare fuori tra i sassi e il fango delle bare: -Ipsa Venena Bibas!-, gridò, ma senza più fiato. Il crocifisso ancora tremò.

Don Milazzo notò il volto del Cristo illuminarsi impercettibilmente. Gli occhi presero vita, il corpo si mosse quasi a distendersi dolce, lento. Una ad una le mani del Cristo si staccarono dalla croce.

-SIGNORE!

SIGNORE MIO!!!

SEI QUI A PROTEGGERMI DAL MALE!- gridò in preda all’estasi il prete, gettandosi a pregare tremante alla base della croce. Il Cristo sorrise silente; scese dalla croce, prima un piede, poi l’altro. Allargò le braccia per circondare le spalle di don Milazzo.

L’ultima cosa che vide Don Milazzo prima di morire, penetrato da un orecchio all’altro dai grossi chiodi del suo Cristo; furono gli occhi dolci e compassionevoli della Vergine Maria imprigionati in un affresco, senza autore e senza gloria, dell’Annunciazione.


Il cane l’aveva seguito fuori dalla chiesa. Poggiato all’alto portone d’ingresso, l’ aspettava il suo padrone; un indù dall’ incarnato scuro e gli occhi di fuoco nero, tozzo, che vendeva predizioni di amore e fortuna in cambio di un panino e una birra NEGRA, che fosse negra la birra, sottolineava il cartello che l’ indù portava sul petto.

-Yama, maledetto! Dov’ eri finito?-, gli chiese.

Il cane uggiolò –oggi stai a pancia vuota, dunque… bene. Buon per tutti, amico.Chissà che questa terra non stia cominciando a girare come deve.-.

Un isolato avanti un autista –incredibile la somiglianza con Clark Gable, pensò Giacomo- uscì dal bar, gli restituì lo sguardo,gli sorrise. Montò sul suo pulmann.

E’ probabile che il caffè gli fosse piaciuto molto.

Ingranò la marcia, ripartì.

Il cielo era diventato di un viola cupo, nuvoloso, l’aria invasa da afa anomala. Entrò nel terminal col portafoglio in mano.

Calcò il marciapiedi nel fragore dei veicoli sulle assi legnose di un ponticello alla sua sinistra, fatto per rimediare ad una deviazione della strada dovuta a ‘lavori nelle fogne’, come spiegava una scritta a pennarello rosso, su cartone. L’occhio di Giacomo scivolò su una prostituta grassa, poggiata al bidone della spazzatura stracolmo, un gruppo di gatti fulvi a frugarci dentro e attorno.




Una vigilessa solerte passava tra le auto abbandonate fuori dalle strisce di parcheggio regalando foglietti sui tergicristalli. Giunse ad una jeep col paraurti anteriore ammaccato, autoradio a tutto volume. Nessuno dentro. La vigilessa scivolò in avanti titubando al ritmo di un blues, passò una mano sulla guancia. Si fermò, scribacchiò e regalò anche alla jeep.

Non lontano dagli sportelli della biglietteria Giacomo vide una vetrina di “TUTTO QUANTO PER UNEURO” davvero tutto quanto e tuttoattaccato, più avanti di qualche passo un bar.Un brontolio allo stomaco gli fece capire che era giunto il momento di mettere qualcosa sotto i denti.

Seduto al tavolino sporco del locale, macinò come un automa un hamburgher e senape che di tutto sapeva tranne che di hamburgher e senape. Sgranchì le gambe, lasciò la tazza di caffè freddo addolcito con quattro cucchiaini di zucchero grezzo di canna a metà.

Il locale era semivuoto. Una coppia di punk alla sua destra. L’uomo, in giubbotto e pantaloni attillati di pelle nera, cresta alta fucsia e arancio, strinse gli occhi e sorrise, aspirò una boccata dalla sua sigaretta. Parve gustare il fumo tra una guancia e l’altra, sollevò il mento verso l’alto ed espirò una nuvola grigia.

Gettò la sigaretta senza spegnerla ai suoi piedi. La ragazzina che l’accompagnava, in reggiseno verde a vista e mini inguinale, s’affrettò a schiacciarla con foga col tacco esagerato. Un’ occhialuta e inespressiva barista sbuffava annoiata, continuando a scribacchiare sulla sovraccoperta in pelle di un Block Notes e sollevando lo sguardo da bancone, bottiglie e bicchieri come per imprimere meglio,nella mente, ogni immagine del locale.

Il televisore, incastrato tra pacchi multicolor di Pata Chips con in regalo il Magico Cagnetto dei Sogni e cioccolate con wafer Mejor! passava le News sugli ultimi morti di Canis nel mondo.

(‘Tu sei quel che sei’, rimbombava nella testa di Giacomo,

Lo specchio della cappella sotterranea…ricorda lo specchio, quando arriverà il momento!

Tanmetro

Mandinga)

Mentre, quindici minuti dopo, sostava davanti alla fermata del bus; la bambina gli cacciò un grido assordante direttamente nell’orecchio. Giacomo si voltò, trovandosela piantonata davanti, mani sui fianchi e sorridente come nulla fosse accaduto. Aveva i capelli di un biondo sbiadito e l’incarnato chiarissimo, da tedesca. Vestita completamente in blu; elegante e formale con la sua maglia, la gonnellina a balze e i calzettoni, scarpine nere lucide con la cinghia di lato, da collegiale. Giacomo non battè ciglio.La parte razionale del suo cervello gli impose di non battere ciglio.

Avvisò vibrare (si, avrebbe proprio detto vibrare), dalla tasca della sua vecchia giacca sformata, il plico che gli aveva dato Francesco con la raccomandazione di aprirlo solo quando avrebbe sentito di doverlo fare. Ora non sentiva.

Non sentiva nulla in verità. Ma VEDEVA, e bene. E non gli sfuggì, appunto in bella vista sulla fronte della piccola peste, il classico cerotto dell’Anticanis, a strisce verticali e orizzontali rosse, a croce.

Aveva appena fatto il vaccino: Giacomo ci avrebbe scommesso il suo castello di Bamburgh, dal primo mattoncino all’ultimo cespuglio.

La bambina (sette-otto anni al massimo le avrebbe dato), stranamente per quell’ora –i bambini dovevano essere tutti a scuola in quel momento…a fare la classica merendina felice dell’Italia felice, a base di marmellata di finta albicocca e formiche della Nuova Zelanda o di chediavolosoio.- era in giro, e sola. Non portava zaino. Ferma davanti a lui con una faccetta da birba indiavol…

Anche nel pensiero, Giacomo volle omettere la parola ‘indiavolata’ che in un altro periodo della sua vita l’avrebbe fatto sorridere con tenerezza, magari nella speranza di vederne crescere con l’ecografia una così, di bimba, nel ventre della sua Stefania.

La piccola non gli toglieva gli occhi di dosso. Lo scrutava dall’alto in basso e quando lo sguardo maligno ed un poco stordito si fermò all’altezza del pene di lui sorrise malizioso, e dalla bocca a cuore saettò una linguetta lasciva.

Giacomo l’avrebbe scommesso sulla testa di sua madre.

Percepì la parte razionale del suo cervello andare in fibrillazione, segnalargli un DANGER a caratteri cubitali, luminosi e rossi. Strinse la mascella fissando la bambina, rispose in silenzio e a denti stretti al sorriso ed una vampata di rossore violento gli partì dai lati della bocca fino ad estendersi alle orecchie e l’attaccatura scura dei capelli. Allora si, allora capì che quella non era una bambina…normale. Forse lo era stata un tempo, ma ora non lo era più.

La bambina soppesò il grosso sasso sulla mano sinistra.

Nel momento in cui la vide flettere gli arti e portare la mano all’indietro per far partire la pietra che per tutto quel tempo aveva nascosto dietro la schiena, Giacomo capì che quella mattina avrebbe perso il pullman. Spiccò un saltello come a darsi la carica, come quei pupazzetti a molla che si spingono con forza verso il basso e poi si lasciano scattare, volare verso il cielo. Giacomo scattò. Nella corsa scavalcò alcuni barboni addormentati e quando uno dei clochard, separato dagli altri e in stato semicomatoso gli si avvicinò barcollante per chiedergli l’elemosina, Giacomo lo scansò come un corridore a pochi metri dal traguardo. Deviò alla sua destra ma troppo tardi: il sasso lo raggiunse colpendolo alla base della nuca. Reprimette un grido, sentendo qualcosa fargli ‘crack!’. Il sasso rimbalzò, rotolò, cadde sul marciapiedi lurido e oleoso. Giacomo avvertì fitte lancinanti irradiarsi dal collo al cervello, per atrofizzarlo. Avrebbe perduto i sensi dal dolore quasi…dimenticare tutto e… oh, si. Bellissimo.

Ma non poteva, non ora, non con quel piccolo mostro alle sue spalle. In quattro falcate troppo larghe per la sua età la bambina bionda lo raggiunse. Giacomo con terrore crescente (non poteva picchiare una bambina…NON POTEVA!) la vide arrivargli a pochissimi metri di distanza e, da lì, grugnire (Si! L’aveva sentita proprio grugnire!) e spiccare un balzo, come un canguro.

Si rese conto di ciò che accadeva solo nell’attimo in cui i denti della piccola gli si conficcarono nel collo, affondando nella carne morbida

COME ERA POSSIBILE CHE NESSUNO ACCORRESSE AD AIUTARLO? CHE VEDESSE? COME…

Giacomo cacciò un urlo, strattonò violentemente la bambina come si fa con un cane che ha acchiappato l’osso e non molla,accidenti a lui, fino a che non gli si rompe la mascella; strattonò ancora più forte, riuscendo a scrollarsela di dosso. Gli caddero anche gli occhiali. Una lente andò in frantumi. La biondina stramazzò sulla schiena come un sacco vuoto e nel contatto col marciapiedi fece anche il rumore di un sacco vuoto; un sinistro Guoshhhpf che mai più nel corso della propria vita Giacomo avrebbe dimenticato. Maldestramente tentò di tamponare la ferita con la mano. Raccattò incerto gli occhiali da terra, li indossò vedendo la realtà ancora più distorta, almeno dalla parte della lente rotta. La bambina diede l’impressione di ridere, di dire qualcosa. Si agitò sul marciapiedi come in preda alle convulsioni,un ringhio ed eccola ancora in forze, a carponi sul pavimento come un ragno, i capelli scomposti, imbrattati del sangue di Giacomo e l’olio di macchina della strada, le pupille rovesciate e la lingua penzoloni, pronta a spiccare un altro balzo, forse l’ultimo. Tutto quello era folle, assolutamente folle. Eppure Giacomo non dubitò neanche un istante del proprio equilibrio mentale.

Imbambolato, registrò scioccamente che stava cominciando a piovere.

In aria echeggiò lo sparo del poliziotto; un ragazzo sui venticinque, tozzo, robusto, capelli cortissimi freschi di ‘tosatura’.

-CHE DIAVOLO SUCCEDE QUI?- ululò il poliziotto dall’altro lato della strada con chiaro accento del sud, e al pronunciare quel ‘QUI’ aveva già raggiunto Giacomo sul marciapiedi e già, anche lui, fissava esterrefatto la bambina accucciata, il ringhiare famelico. D’istinto l’agente puntò la Beretta d’ordinanza sulla piccola, non avrebbe sparato, chiaro che no…voleva solo spaventarla e…

il piccolo mostro, approfittando del momento d’incertezza del nuovo arrivato spiccò il suo salto, e questa volta addentò il collo al poliziotto. Il giovane produsse un Gauuuughhhh! da caverna: un fiotto di sangue schizzò attorno, zampillò, la bambina aveva affondato i denti nella giugulare. Giacomo con orrore lo vide cadere in ginocchio,accasciarsi con la bambina ancora attaccata al collo a succhiare e grugnire.

Vide arrivare ciondolando il clochard semistordito, ma con negli occhi una luce diversa ed un ghigno che era lo stesso della piccola.

Continuando a tamponare la ferita con una mano, con quella libera raccolse la pistola e, senza voltarsi indietro, corse con tutte le forze che gli rimanevano in corpo.


Varie ulteriori sul sito ufficiale: www.giovannamulas.it

 

GIOVANNA MULAS E LA SUA ANIMAultima modifica: 2010-09-22T12:29:00+02:00da zairo-ferrante
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